Angelo Scola e il nuovo arcivescovo di Milano: pastore o partita a Risiko?

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Al via le consultazioni e, come il pubblico delle grandi occasioni, vaticanisti e semplici commentatori sono con il fiato sospeso per la nomina del successore di Angelo Scola alla guida della diocesi di Milano. Sarà qualcuno in linea con l’attuale arcivescovo o – come sembra più probabile, visti i rapporti non certo idilliaci tra Francesco e Scola – molto diverso? L’importante è che tutto non si riduca ad una partita di Risiko. O peggio, ad un gioco della politica.

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La nunziatura ha avviato sotto segreto papale le consultazioni di ecclesiastici e laici circa i possibili candidati alla guida della diocesi di Milano. Per gli interpellati un compito delicato, chiamati come sono a fornire anche una terna di nomi per il successore del card. Angelo Scola. Un questionario, quello che intende vagliare l’idoneità dei candidati, che nel settembre scorso è stato riesaminato dal cosiddetto C9 – il consiglio di cardinali che affianca papa Francesco nell’opera di riforma della Curia romana – con il proposito di svecchiarlo dei suoi caratteri più giuridici e burocratici, per orientarlo secondo un approccio più pastorale e spirituale.

Ad essere consultati sulla successione a Scola – l’elenco è segreto – sono figure chiave della diocesi di Milano, come vescovi ausiliari e vicari episcopali, ma anche semplici sacerdoti e laici. Non delle “primarie” mutuate dalla politica e nessuna funzione elettiva, bensì un modo per coinvolgere clero e fedeli in una scelta che li riguarda da vicino. Un metodo che a Milano è già stato sperimentato nel 2011 durante il pontificato di Benedetto XVI per la successione a Tettamanzi e che promette di condurre la riflessione al riparo da cordate e lobby. Nessuna “corrente interna” e nessun vincolo alla decisione del Pontefice, quindi, che rimane libero di considerare nella scelta del futuro arcivescovo di Milano quella sintonia con il proprio pontificato che sembra regolare – come è naturale – ogni sua nomina.

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La faccenda non sembra comunque potersi ridurre ad una questione locale, e non solo perché ogni Chiesa particolare è formata ad «immagine della Chiesa universale» (Lumen Gentium, n. 23): con le sue 1108 parrocchie e gli oltre 5 milioni di abitanti che la rendono una delle diocesi più grandi del mondo, tutti – sotto la Madunina così come all’ombra del Cupolone – sanno che dalla scelta del successore di Ambrogio dipenderanno gli equilibri della Chiesa italiana. Non solo: per Milano e la particolarità del suo rito, fatto di una liturgia e di un simbolismo propri, si comprenderà se il vento soffia a favore della valorizzazione del particolarismo e delle sue ricchezze oppure verso un’omologazione che qualcuno vorrebbe come il giusto ritorno di Milano all’ovile di Santa (Romana) Chiesa. Inevitabile allora lo scatenarsi di rumor forse più adatti al calciomercato che non alla scelta del pastore di un gregge e l’ipotizzarsi di grandi manovre di truppe porporate che farebbero invidia ad una partita di Risiko. Il rischio, però, è che tutto possa ridursi ad un lancio di dadi e ad un muovere di pedine. O peggio, ad un gioco della politica in seno alla Chiesa.

Vera sopra ogni strategia ed ogni previsione rimane invece l’immagine del vescovo di cui parla la Lumen Gentium, la costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II in cui si narra il mistero della Chiesa. È lì che del vescovo è ribadita la dimensione di pastore che serve il suo gregge, di araldo della fede che porta a Cristo nuovi discepoli (n. 25), cui spetta il carisma dell’unità (nn. 7, 27). E certo non si deve attendere una stagione di rinnovato ruolo di sacerdoti e laici perché al vescovo si dica che «non rifugga dall’ascoltare quelli che dipendono da lui, curandoli come veri figli suoi ed esortandoli a cooperare alacremente con lui. Dovendo render conto a Dio delle loro anime». Un peso sufficiente a fare tremare i polsi a qualsiasi pedina di gioco.

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«Il vescovo ha il compito non solo di camminare in questo pellegrinaggio insieme agli altri, ma di precedere e di indicare la strada», ricordava Benedetto XVI in occasione della solennità dell’Epifania del Signore 2013, l’ultima celebrata da pontefice. In Polonia, nel luglio scorso, ai vescovi Francesco ha chiesto di «essere vicini e creare vicinanza», perché «senza vicinanza c’è soltanto parola senza carne». Due anni prima, di fronte alla congregazione dei vescovi riunita nella Sala Bologna del Palazzo Apostolico, il Pontefice auspicava che, liberi da «scuderie, consorterie o egemonie», i vescovi si dedicassero con «assiduità e quotidianità» alla loro missione, senza inseguire «incontri e convegni». Pastori di una Chiesa che «non ha bisogno di apologeti delle proprie cause né di crociati delle proprie battaglie, ma di seminatori umili e fiduciosi della verità».

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una crescita dell’interesse per l’argomento religioso e per le persone e gli avvenimenti che ad esso si riferiscono. Un’attenzione forse catalizzata dalla personalità di Francesco, che si è manifestata anche in una più ampia copertura dei media. Ciononostante, più di una volta alcuni fatti ecclesiali sono stati letti in un’ottica tutt’altro che serena – quando non addirittura distorta – mentre altri avvenimenti, spiritualmente più rilevanti, sono stati deliberatamente ignorati. Possiamo allora parlare di un interesse genuino?

Anche la Chiesa – ambrosiana e universale – ha le sue contraddizioni, nel bene e nel male riflesse nella storia dei suoi vicari. Se quello che emergerà dalla nomina di Francesco sarà un pastore con un passo diverso, ne potrà scaturire il buono di uno scuotimento dalle false certezze di una comunità ambrosiana talvolta sin troppo sicura di sé. Di contro, un vescovo – o un papa – che sia la soluzione ad ogni problema è un’attesa che vive soltanto nella fantasia o nell’ingenuità di chi non ha capito cosa distingue un pastore da un líder máximo e la Chiesa da una Repubblica delle banane. «Non esiste un pastore standard per tutte le Chiese», ricorda Francesco. Siano essi testimoni della Risurrezione, annunciatori della salvezza, pastori capaci di agire non «per sé» ma «per la Chiesa, per il gregge, per gli altri, soprattutto per quelli che secondo il mondo sono da scartare», devono saper essere «vescovi “kerigmatici”», «custodi della dottrina» per «affascinare il mondo» e «sedurlo con l’offerta della libertà donata dal Vangelo».

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Una cosa è certa: quella di Milano non è una Chiesa che concede ai propri vescovi sonni tranquilli. Spesso li fa santi, in un modo o nell’altro. Milano è una città e una Chiesa che provocano, come hanno sperimentato in prima persona Ambrogio e Carlo. Milano è una diocesi il cui arcivescovo è sempre sotto i riflettori. Inevitabile che si occupi di politica, di economia, di cultura e di tutte le contraddizioni di ognuna di esse. Ma alla fine, come dimostra la storia della Chiesa ambrosiana, più che l’abilità di bucare lo schermo e di apparire ad ogni costo al passo con i tempi moderni di una città in continuo fermento, ciò che conta è che il vescovo sappia farsi amare e seguire dal suo gregge. Perché in una città che corre, ci si ferma soltanto di fronte ad un sorriso e ad una mano tesa. La politica appartiene più ai commentatori che a colui che alla fine deciderà, il Papa. Gregorio Magno auspicava che i vescovi che avessero assunto l’incarico senza la debita riflessione sentissero nascere nell’animo una doverosa trepidazione. Nell’indovinare il successore di Scola l’importante, insomma, è non perderci il sonno. Lasciamolo fare al futuro arcivescovo.

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