Nec rubricat nec cantat, ma ama lo spagnolo e le lingue indigene, le parole forti e i silenzi. Conferme e novità di un Pontefice toccato dal Messico.
Il viaggio apostolico conclusosi in Messico ha rappresentato uno dei grandi eventi pastorali e mediatici del pontificato di papa Francesco. Dall’incontro a Cuba con il patriarca di Mosca Kirill, prima dell’arrivo in Messico, alla Messa nell’area fieristica di Ciudad Juárez, ad una manciata di chilometri dal confine con gli Stati Uniti, il Messico sembra aver lasciato, più di altre mete, un segno nel Papa. Con qualche sorpresa e tante conferme.
Al Papa piace “Vive Jesus, el Senor!”. Il gesuita nec rubricat nec cantat, cioè non canta né si occupa delle rubriche liturgiche, recita uno dei detti più noti sui membri della Compagnia di Gesù, al quale anche papa Francesco il più delle volte sembra non potersi – o volersi – sottrarre, astenendosi dal canto anche durante le celebrazioni liturgiche e l’Angelus. Il viaggio apostolico in Messico ha però confermato la passione del Papa per lo spagnolo “Vive Jesus, el Senor!”. È stato infatti sulle note di questo canto che papa Francesco è tornato a far sentire la propria voce a suon di musica insieme ai giovani riuniti nello stadio di Morelia, il 16 febbraio. Era già accaduto che il Pontefice rompesse il suo silenzio canoro sulle stesse note in occasione dell’incontro con il Rinnovamento nello Spirito Santo allo Stadio Olimpico di Roma, all’inizio del giugno 2014.
E le lingue indigene. È risultato evidente quanto papa Francesco si sia trovato a proprio agio nel Paese ispanofono, che gli ha offerto l’opportunità di rapportarsi con gli interlocutori nel modo che predilige, cioè liberamente. Come già in occasione del suo primo viaggio in Africa, però, in Messico il Papa ha confermato anche la sua predilezione per le lingue autoctone. Allora si era trattato del Mungu Abariki Kenya!”, “Che Dio benedica il Kenya!”, diffuso via Twitter prima di arrivare nel Paese africano. In Messico Francesco ha ricordato che li smantal Kajvaltike toj lek – “la legge del Signore è perfetta, rinfranca l’anima” (Sal 19/18,8), in lingua tzotzil, all’inizio e alla fine dell’omelia pronunciata durante la Messa con le comunità indigene del Chiapas a San Cristóbal de Las Casas, il 15 febbraio.
Un’audacia linguistica non scontata per un Pontefice che in Brasile aveva solo brevemente parlato in portoghese prima di arrendersi al più certo spagnolo, che nei Paesi anglofoni non teme di affidarsi anche in pubblico al suo insegnante di inglese, mons. Mark Miles, e che ha abolito il saluto nelle differenti lingue al termine delle udienze generali del mercoledì e in occasione delle benedizioni Urbi et Orbi di Natale e Pasqua. Nel dizionario del Papa non mancano neppure gli idiomi del Bel paese: in piazza San Pietro aveva reso onore alla sua ascendenza piemontese con l’invito a non fare la mugna quacia, letteralmente la “monaca quatta”, cioè ad assumere un’espressione fintamente buona, mentre a Napoli aveva strizzato l’occhio alla tradizione popolare con la benedizione a Maronna v’accumpagne, “la Madonna vi accompagni”.
Papa, vescovo e tatic. Fin dalla sera della sua elezione, papa Francesco ha dimostrato di usare con il contagocce l’appellativo di papa, specie quando parla di sé stesso, preferendogli quello di vescovo di Roma. In Messico, però, il Pontefice si è guadagnato un nuovo titolo: quello di tatic (padre), del quale era già stato insignito dai nativi chiapanechi anche mons. Samuel Ruiz García (1924-2011), per quarant’anni vescovo caminante di San Cristóbal de las Casas.
Furbi come serpenti e umili come colombe. Secondo l’appello del Papa dovrebbero esserlo i giovani, come i circa 50 mila venuti ad incontrarlo a Morelia. Ma non solo loro. Papa Francesco sorprende e non sorprende. Non sorprende la costanza dei suoi fuori programma, così come la sua capacità di affrontare di petto temi caldi sul piano sociale, come la corruzione e il narcotraffico, sui quali è ampiamente tornato dopo la vicenda della paventata “messicanizzazione” dell’Argentina che un anno fa aveva suscitato una vivace reazione da parte del governo messicano.
Il Pontefice non si è sottratto neppure alla spinosa questione delle forme di convivenza alternative alla famiglia («si insinuano nelle nostre società – che si dicono società libere, democratiche, sovrane – si insinuano colonizzazioni ideologiche che le distruggono, e finiamo per essere colonie di ideologie distruttrici della famiglia») e della comunione ai divorziati risposati, piazzando un gol nello stadio “Víctor Manuel Reyna” di Tuxtla Gutiérrez, sullo splendido assist di una coppia di divorziati risposati che, ammettendo di non essere nelle condizioni di ricevere l’Eucaristia, hanno spiegato di fare la comunione attraverso il servizio al prossimo, «attraverso il fratello bisognoso, il fratello malato, il fratello privato della libertà».
Non sorprende neppure la ritrosia di papa Francesco a trattare in pubblico temi di natura ecclesiastica, che preferisce affrontare in privato, facendo proprio l’appello più volte indirizzato al clero contro la mormorazione e che nel novembre del 2014 lo aveva portato a dire di preferire i «pugni» al «terrorismo delle chiacchiere». È questo il caso del nodo dei diaconi indigeni sposati, che non ha trovato posto nell’omelia di papa Francesco a San Cristóbal de las Casas, che ha invece scelto di dedicare alla dignità delle popolazioni indigene e alla custodia dell’ambiente, una volta di più “casa comune”. L’argomento dei diaconi indigeni sposati è invece stato presente nel saluto rivolto dal vescovo Felipe Arizmendi Esquivel al Papa, al termine della Messa. Sorprendentemente energica, ma da più parti attesa – e molto probabilmente condivisa – l’irritazione del Pontefice per l’ennesimo eccesso di entusiasmo da parte di quello che alcuni organi di stampa hanno definito un fan. Come direbbe Trilussa: “Quanno ce vò, ce vò”.
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Il Sismografo