Una mezza novità: la lingua tzotzil nella liturgia

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Probabilmente una parte della stampa la bollerà come l’ennesima “rivoluzione” del Pontefice, ma l’autorizzazione concessa da Papa Francesco alla celebrazione di liturgia e sacramenti in tzotzil e tzeltal, le antiche lingue autoctone degli altopiani centrali del Chiapas, in Messico, si inserisce in un solco lungo secoli – quello dell’inculturazione – in gran parte amerindio e gesuita.

Discendenti dei maya, tzotzil e tzeltal sono fra i gruppi indigeni più numerosi e nei decenni si sono distinti per la fiera difesa della propria lingua tradizionale. E non solo della lingua. In un’area funestata per anni da guerre e guerriglie, è ancora “fresco” nella memoria l’allontanamento dei sacerdoti cattolici da parte di alcuni indigeni tzotzil legati ai culti pagani. Da allora una parte della popolazione pratica una commistione di ritualità pagana e Cristianesimo, sigarette, alcol e Coca-Cola.

Naturalmente questa è un’altra storia e ciò che da Roma si mira ad ottenere è soltanto una maggiore valorizzazione di quello che è considerato un importante tratto culturale delle popolazioni locali. «L’approvazione per l’uso delle formule sacramentali in tzeltal e tzotzil per il battesimo, la cresima, la messa, la confessione, l’unzione degli infermi e l’ordinazione» è arrivata in sordina, come ci si aspetta da qualcosa che non è una novità. O che lo è soltanto a metà. I nuovi testi in tzotzil e tzeltal, redatti da esperti, sono stati esaminati ed approvati dalle Congregazioni romane per il Culto Divino e la Dottrina della Fede, che ne hanno saggiato il mantenimento dell’ortodossia.

Nel frattempo un procedimento simile potrebbe presto interessare anche un’altra lingua messicana, il náhuatl. L’apripista? La Vergine di Guadalupe che, apparendo all’indio Juan Diego il 9 dicembre 1531, si rivolse a lui in questo idioma. Come a Lourdes, dove alla giovane Bernadette Soubirous la Vergine parlò nel patois guascone. Miracoli e miracoli della tutela del patrimonio linguistico.

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