Papa Francesco, un gesuita nelle Indie dell’Occidente

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Sin dalle prime parole pronunciate la sera di quel 13 marzo dello scorso anno il mondo si è interrogato, esaltato, talvolta stupito dello stile comunicativo di papa Francesco. Semplice personalità latina? Rivoluzionario? Di rottura? Macché. Comunque lo si giudichi, uno stile antico almeno di 500 anni. Soltanto nella direzione opposta, verso le Indie del nostro tempo. Tutte da evangelizzare.

«Sant’Ignazio rispetta la varietà delle culture, dei popoli, dell’interiorità delle persone», così papa Francesco in Chi sono i Gesuiti. Storia della Compagnia di Gesù (EMI, 2014). «Voleva riunificare due dimensioni che la modernità, segnata dalla Riforma di Calvino, aveva disgiunto: il cuore e la ragione, il pensiero e le emozioni. […] Ignazio è l’uomo che rende possibile il dialogo tra la parola di Dio e la cultura della sua epoca; quel dialogo si fa istituzione». Nonostante la peculiarità di alcuni tratti della personalità del Pontefice, appare evidente come alcuni di essi, colti nella loro dimensione storica e pastorale, appartengano pienamente al repertorio stilistico di una missionarietà in corso, e più specificamente ad una di matrice gesuitica. Un raffronto tra lo stile pastorale di papa Francesco e la sua formazione in seno alla Compagnia di Gesù non è cosa nuova. In questo caso si vuole però evidenziare con maggior dettaglio la collocabilità storica – anche rispetto alla storia personale di Jorge Mario Bergoglio – di alcuni di questi caratteri, presentati da tanti media come pregiudizialmente rivoluzionari e astorici.

Ritorno alle basi
«Permesso, grazie, scusi». Con le sue «tre parole chiave per vivere la pace e la gioia in famiglia», papa Francesco ha creato uno slogan catechistico che dallo scorso anno è rimbalzato per mesi sui principali mezzi di comunicazione. Concetti semplici, anche della buona educazione, spesso accompagnati dall’invito a ripetere, «diciamo tutti insieme». Un richiamo alle basi, per alcuni inatteso da parte di un pontefice, certamente non scontato, ma evidentemente necessario. Un’altra rivoluzione, ça va sans dire. A ben guardare, però, sin dalle loro missioni ad gentes del XVI secolo, nello stile della predicazione gesuitica compare una pedagogia di base caratterizzata da un insistente richiamo a pochi, chiari concetti fondamentali – cristiani e della buona creanza – facili da memorizzare e più volte ripetuti.

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Linguaggio figurato e fantasía latina
«Il pastore che si isola non è un vero pastore di pecore, ma un parrucchiere di pecore, che passa il suo tempo a mettere loro i bigodini, invece di andare a cercarne altre». Questa non è che una fra le numerose immagini utilizzate da papa Francesco nei suoi discorsi: immagini che puntano a chiarire concetti complessi – e talvolta scomodi – in maniera immediata, con uno stile comunicativo adatto, quasi necessario, alle «periferie». Semplice fantasìa latino-americana? Anche in questo aspetto, certamente esaltato da elementi propri della sua personalità, si percepiscono non solo evidenti debiti figurativi verso i Vangeli, ma anche una figliolanza rispetto allo stile comunicativo missionario, particolarmente incentrato sulle immagini e valorizzato anche in seno alla Compagnia. Ricca di visioni fu la vita di Ignazio di Loyola e ampio il risalto che delle immagini, anche linguistiche e omiletiche, diedero molti dei personaggi ai vertici della Compagnia, come Francesco Borgia (1510-1572) e Claudio Acquaviva (1543-1615), entrambi generali dell’ordine.

Arte ed emotività
Riferendosi alle immagini è impossibile non fare un cenno all’arte, linguaggio figurato per eccellenza. Nella storia della Chiesa il “linguaggio delle immagini”, linguistiche o materiali, fu utilizzato pressoché in ogni epoca e in tutte le terre di missione e toccò il suo apice artistico durante l’età medievale e moderna post-tridentina. È di particolare rilevanza l’impulso che giunse alle committenze da parte della Compagnia, perseguendo l’obiettivo dell’evangelizzazione anche attraverso la via dell’emotività, con la preziosa alleanza del Barocco. Tanto le immagini e le omelie in terra di missione, quanto le chiese gesuite nelle terre già evangelizzate – o presunte tali – fusero con misura pathos e logos al fine di attrarre e persuadere i fedeli facendo leva anche sulle loro emozioni. Nel suo rapporto con l’arte, papa Francesco si colloca nel solco dei suoi diretti predecessori, almeno da Paolo VI in poi, nel perseguire la via pulchritudinis, la via della bellezza, conscio di come «le opere d’arte danno testimonianza delle aspirazioni spirituali dell’umanità, dei sublimi misteri della fede cristiana e della ricerca di quella bellezza suprema che trova la sua origine e il suo compimento in Dio», colmando, per dirla con Paolo VI, la frattura che separa l’arte contemporanea dalla fede.

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Teatralità del linguaggio e pedagogia del teatro
Dinamiche connesse alla strategia dell’emotività e del visivo entrano in gioco anche in un’altra forma di espressione artistica: il teatro. Apparentemente lontano dagli orizzonti del Cristianesimo e dell’evangelizzazione, i gesuiti colsero presto le potenzialità del teatro, tanto nelle rappresentazioni nelle terre di missione, quanto nel percorso di studi nei propri seminari. Naturalmente si tratta in questi casi di forme teatrali caratterizzate da una spiccata finalità educativa, privilegiata rispetto alla dimensione eminentemente ludica. I temi messi in scena riguardano le Sacre Scritture, gli exempla sanctorum e i princìpi del Cristianesimo. Ruolo di spicco era riservato alla lingua latina. Il frequente abbandono del testo per addentrarsi in discorsi pronunciati a braccio, il calcolato rischio di «incidenti», l’uso di espressioni forti e battute di spirito sono solo alcuni dei caratteri che tradiscono da parte del Pontefice – che ha più volte confessato il suo amore per il tango, la musica e il cinema – un ricorso agli strumenti e ai registri dell’emotività e, in certo senso, della teatralità.

Inculturazione
Un ulteriore elemento da tenere in considerazione nell’accostarsi allo stile comunicativo di papa Francesco e che motiva in molti fedeli la percezione di quel suo essere «uno di noi» è quello dell’inculturazione, «l’incarnazione del Vangelo nelle culture autoctone – ed insieme l’introduzione di esse nella vita della Chiesa» (Giovanni Paolo II, Slavorum Apostoli, 1985, 21), della quale i Gesuiti furono fra gli interpreti privilegiati nelle terre di missione. Terreno spinoso, dell’inculturazione non possono tacersi le difficoltà e i rischi cui storicamente essa andò incontro, fra i quali il potenziale ottenimento di sincretismi o abdicazioni da alcuni dei dogmi cattolici. Abusi in questo senso ci furono, anche in seno ai Gesuiti, che non mancarono di essere evidenziati e condannati dalla Chiesa e dagli stessi vertici della Compagnia.

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Condanna della schiavitù
L’impegno di alcuni gesuiti contro la schiavitù al tempo delle colonie europee nelle Americhe e in Africa è tanto noto da essere entrato ormai nell’immaginario collettivo, grazie anche ad alcune riedizioni cinematografiche del fenomeno. Più celebre esempio di quest’opera sono le reducciones sudamericane, villaggi di vita e lavoro comune sparsi nelle foreste fra Brasile, Paraguay e Uruguay, nelle quali alcuni gesuiti tentarono – spesso non senza successo – di sottrarre gli amerindi dalle mire schiaviste dei coloni europei, in special modo spagnoli e portoghesi. Dure sono risuonate nei giorni scorsi, anche nel libero e moderno Occidente, le parole del Pontefice in favore delle vittime del «lavoro schiavo»: migranti, schiave e schiavi sessuali, minori, vittime di una schiavitù alla radice della quale «si trova una concezione della persona umana che ammette la possibilità di trattarla come un oggetto». Una custodia dell’uomo contro ogni forma di «schiavitù spirituale e materiale», in linea con il ruolo magisteriale e di custodia della fede – dell’orthodoxía – che sono impliciti e fondanti nella natura stessa del magistero petrino.

Ciò che colpisce maggiormente dell’atteggiamento di papa Francesco è – o dovrebbe essere – che l’utilizzo di questi registri comunicativi spiccatamente missionari e di queste metodologie di evangelizzazione ad gentes avviene anche entro e verso terre che venivano date come già evangelizzate: non c’è conferma migliore a quanto ciò appaia oggi sempre meno scontato.

Nell’immagine: Giovan Battista Gaulli detto il Baciccio, Trionfo del Nome di Gesù, prima metà del XVII secolo, Roma, Chiesa del Gesù.

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