Il cardinal Koch, gli uniati, il Comunismo e il Papa

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Come era prevedibile, la recente intervista del cardinale Kurt Koch per la Radio Vaticana non ha mancato di essere notata – e strumentalizzata –, complice non solo l’interesse dei temi trattati, ma anche l’attualità della contrapposizione fra Russia ed Ucraina e il sempre più fitto dialogo ecumenico fra la Chiesa cattolica e una sponda della Chiesa ortodossa, quella costantinopolitana.

Rispondendo in tedesco ad una domanda sulle «sue personali considerazioni riguardo il dialogo ecumenico in generale, sia con le Chiese orientali che con quelle occidentali», il cardinal Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, ha detto fra l’altro che «i cambiamenti che ci sono stati in Europa nel 1989 (la caduta del muro di Berlino e, semplificando, del Comunismo, NdR) non hanno infatti rappresentato un grande vantaggio per l’ecumenismo, perché con la svolta sono uscite dal nascondimento le Chiese cattoliche-orientali – la Chiesa greco-cattolica, soprattutto in Ucraina, in Romania, in Transilvania – che erano state proibite da Stalin, e tutto questo ha risvegliato le antiche accuse di uniatismo e proselitismo».

Qualche commentatore, specialmente d’Oltreoceano, ha voluto leggere nei riferimenti del cardinal Koch alle proibizioni staliniane e al mancato vantaggio per l’ecumenismo, se non un rimpianto per la caduta del Comunismo o del muro di Berlino, certamente un cardinalizio scivolone. Non è impossibile vedere in questo tipo di interpretazioni un ruolo di quella contrapposizione propagandistica – spesso non poco esacerbata – fra i riesumati blocchi occidentale e orientale, quest’ultimo personificato dal presidente della Federazione russa Vladimir Putin.

Non è da sottovalutare, poi, anche la sottile ma pervicace sopravvivenza di quelle accuse di cripto-comunismo (o di comunismo tout court) rivolte da mesi a papa Francesco, probabilmente motivate dalle frequenti critiche mosse dal Pontefice ad un orizzonte esistenziale esclusivamente basato su considerazioni di tipo economicistico e capitalistico. Anche queste valutazioni, risalenti almeno alla pubblicazione dell’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium (26 novembre 2013) giunsero per lo più dagli Stati Uniti, rilanciate poi con echi critici od entusiastici – ma egualmente strumentali – anche nel Vecchio Continente.

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Si è tornati a parlare di “uniati” ancora recentemente, nel viaggio aereo di ritorno di papa Francesco dalla Turchia, il 30 novembre scorso. Alla domanda di un giornalista russo ed ortodosso a proposito dei contatti fra la Chiesa cattolica e il Patriarcato di Mosca, il Pontefice ha accennato alla tematica delle Chiese cattoliche di rito orientale, fra i maggiori ostacoli ad un sereno confronto con il Patriarcato di Mosca. Ribadendo come esse «hanno diritto di esistere», il Papa ha precisato come «uniatismo è una parola di un’altra epoca. Oggi non si può parlare così. Si deve trovare un’altra strada».

Il fenomeno delle Chiese “uniate”, più propriamente le Chiese cattoliche di rito e tradizione ortodossa che hanno accettato di tornare in comunione con la Chiesa cattolica, prese avvio negli ultimi anni del XVI secolo. Da subito viste con sospetto dalla Chiesa ortodossa, le Chiese cattoliche di rito orientale rappresentarono il prodotto del fallimento della riunificazione fra la Chiesa cattolica e quella ortodossa nella sua interezza e nacquero da riunioni parziali con singoli episcopati di regioni orientali, che, pur nella recuperata comunione con Roma, mantennero i propri riti, culti e tradizioni, insieme ad un’ampia autonomia ecclesiastica.

Per gli ortodossi il fenomeno delle Chiese “uniate” rappresenta ancora oggi una forzatura, un elemento di “proselitismo”, nonché un ostacolo sul cammino ecumenico con Roma, soltanto momentaneamente celato durante il periodo sovietico. Il Comunismo russo aveva infatti inteso cancellare l’esistenza di queste Chiese, finendo con l’ottenere anche – del tutto incidentalmente – la possibilità di eliminare un fattore critico nei rapporti fra Chiesa cattolica e Patriarcato di Mosca. È probabilmente a questa dinamica che intendeva riferisti il cardinal Koch. Quando, con il disfacersi dell’Unione Sovietica, le Chiese orientali ritornarono alla piena visibilità, il problema – non della loro esistenza in quanto tale, bensì della difficoltà dei rapporti fra Roma e Mosca su questo tema – tornò anch’esso alle luce.

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A complicare ulteriormente la situazione non manca di contribuire oggi il conflitto che ancora recentemente ha infiammato i rapporti fra Ucraina e Russia. Non sfugge infatti alle statistiche che tra le Chiese cattoliche di rito orientale – che nel loro complesso contano oggi oltre 20 milioni di fedeli – quella greco-cattolica ucraina sia numericamente la più consistente, nonché la più conflittuale con il Patriarcato di Mosca. Proprio al conflitto ucraino-russo non ha mancato di fare riferimento papa Francesco sullo stesso volo di rientro a Roma: «In questi ultimi tempi, con il problema della guerra, il poveretto (il Patriarca Kirill, NdR) ha tanti problemi lì, che il viaggio e l’incontro con il Papa è passato in secondo piano. Ma tutti e due vogliamo incontrarci e vogliamo andare avanti».

Nell’immagine: Kiev, Cattedrale di Santa Sofia.

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