Celebrare senza popolo? Solo «per uscire dal tunnel, non per rimanere così». La CEI suona la carica all’attacco di Conte, ma papa Francesco mette la sordina.
Se la liturgia senza popolo avesse una “forma”, sarebbe quella di un tunnel lungo e accidentato. È questa la sensazione che si ha ripercorrendo le vicende che hanno accompagnato le celebrazioni senza concorso di popolo durante le settimane della pandemia di Covid-19. Fino alle pagine scritte nelle ultime ore, che sembrano inaugurare un nuovo capitolo.
Era la fine di febbraio, ultimi giorni prima dell’inizio della Quaresima più insolita a memoria d’uomo, quando le diocesi dei territori più colpiti dalla diffusione del nuovo coronavirus prendevano la decisione di sospendere la celebrazione delle messe alla presenza dei fedeli. A fare da apripista le diocesi di Lombardia e Veneto, Milano su tutte. Pochi giorni dopo – siamo all’inizio di marzo – il primo di una lunga serie di decreti governativi estende le misure di distanziamento sociale all’intera Italia: accanto a cinema, bar e musei, figurano anche le messe, innegabilmente un momento di ritrovo e vicinanza fra le persone e, per questa ragione, di particolare rischio.
La Conferenza Episcopale Italiana si adegua alle misure senza troppi sussulti. Vengono invocati il senso di responsabilità e l’attenzione da usarsi verso il prossimo, soprattutto i più fragili, come gli anziani. Questo non basta, comunque, per mettere al riparo i vescovi italiani da un fuoco di fila – in gran parte proveniente dal variegato universo cattolico – che mescola accuse di pusillanimità di fronte al potere politico, critiche a Francesco, calcoli di cubature e droplet, scomposti paragoni con santi e celebrazioni clandestine presiedute da sacerdoti in cerca di emozioni. Nulla di nuovo: se l’economia ha i suoi “liberisti da divano”, come li ha definiti il commissario Domenico Arcuri, il mondo cattolico sul divano ha da sempre i suoi (falsi) martiri e inquisitori.
Ma tanto è bastato per lasciare intendere, come si scrisse da queste pagine nei primi giorni di marzo, che la “Messa sospesa” avrebbe costituito un importante stress test del cristianesimo, per mutuare un linguaggio finanziario. Passa poco più di una settimana e la Chiesa si spacca, in sordina ma platealmente, sulla chiusura delle chiese a Roma. Si badi: chiusura fisica delle chiese e temporanea sospensione delle messe con concorso di popolo sono due cose ben diverse. E a chiarirlo è papa Francesco, che il 13 marzo da Santa Marta invita a pregare «per i pastori che devono accompagnare il popolo di Dio in questa crisi. Il Signore gli dia la forza e anche la capacità di scegliere i migliori mezzi per aiutare». E mette in guardia: «Le misure drastiche non sempre sono buone». Nel mirino del Pontefice c’è la decisione della diocesi di Roma, resa pubblica il giorno precedente, di chiudere le chiese sull’intero territorio. Poche ore, e il cardinale vicario Angelo De Donatis è costretto a fare marcia indietro, «precisando e, nella misura del necessario, modificando» quanto esposto nella precedente disposizione. La sensazione di aver assistito ad un cortocircuito è forte. Non mancano le critiche, questa volta dal mondo scientifico. «Una pessima idea. Sono sicuro che Dio vuole che tutti preghino da casa», scrive su Twitter Roberto Burioni, virologo di professione e teologo per un giorno, che critica il cambio di rotta imposto da Francesco.
Le settimane successive trascorrono in relativa tranquillità. La Chiesa si stringe attorno agli eroi di questi dolorosi mesi – medici, infermieri, ma anche tanti sacerdoti, che pagano con la vita la propria missione – e sembra trovare nuova compattezza come comunità anche grazie alla tecnologia. Parrocchie, diocesi e Santa Sede sembrano rincorrersi nel mondo digitale, fra interviste via Skype, celebrazioni sui social e chiese riempite delle fotografie dei fedeli costretti a casa. Chiunque dotato di buon senso è in grado di comprendere che si tratta soltanto di una soluzione temporanea, dettata dall’emergenza, e che le messe in TV, la comunione spirituale e la confessione sacramentale “privata”, in attesa di poter disporre di un confessore, non potranno mai essere la normalità.
La doccia fredda arriva il 17 aprile. «In questa pandemia – osserva papa Francesco nell’omelia da Santa Marta – si comunica attraverso i media, ma non si sta insieme, come accade per questa messa. È una situazione difficile, in cui i fedeli non possono partecipare alle celebrazioni e possono fare solo la comunione spirituale. Dobbiamo uscire da questo tunnel per tornare insieme, perché questa non è la Chiesa, ma una Chiesa che rischia di essere “viralizzata”». Il gioco di parole è eccezionale: “virale” come le informazioni che circolano insistentemente in rete, ma anche ferita nel profondo dal virus. Straordinario, però, dev’essere anche l’effetto prodotto dalle parole del Pontefice sulla Chiesa in Italia.
Arriviamo, infatti, alla tarda serata del 26 aprile. Il premier Conte promette novità che, però, soddisfano soltanto in parte le attese. Riapertura di alcune attività – non tutte – e prosecuzione delle limitazioni sulle celebrazioni religiose, con piccole concessioni soltanto per i funerali. La presa di posizione della Cei, diffusa poco prima delle 22 di quella stessa sera, è durissima. Le parole del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, pronunciate pochi giorni prima in un’intervista (“Sono allo studio del Governo nuove misure per consentire il più ampio esercizio della libertà di culto”) avevano fatto sperare in un allentamento dei vincoli, tanto più che erano il frutto, è dato di capire, di «un’interlocuzione continua e disponibile tra la Segreteria Generale della Cei, il Ministero e la stessa Presidenza del Consiglio». Si lascia intendere un dietrofront del ministro?
Ma la protesta della Conferenza Episcopale Italiana non si esaurisce qui. «Più volte si è sottolineato in maniera esplicita che – nel momento in cui vengano ridotte le limitazioni assunte per far fronte alla pandemia – la Chiesa esige di poter riprendere la sua azione pastorale. Ora, dopo queste settimane di negoziato che hanno visto la CEI presentare Orientamenti e Protocolli con cui affrontare una fase transitoria nel pieno rispetto di tutte le norme sanitarie, il Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri varato questa sera esclude arbitrariamente la possibilità di celebrare la Messa con il popolo». A rischio, avverte la CEI, sono la «pienezza dell’autonomia» della Chiesa e addirittura di «vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto» degli italiani. Sulla stessa linea anche il card. Bagnasco e il card. Ruini, tradizionalmente ritenuti esponenti dell’area conservatrice. Con una precisazione di non poco conto, troppo spesso taciuta anche nella Chiesa: «Dovrebbe essere chiaro a tutti che l’impegno al servizio verso i poveri, così significativo in questa emergenza, nasce da una fede che deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale», chiosa il comunicato CEI. Altro che Chiesa-Ong.
Roma locuta, causa finita est? Tutt’altro. Perché questa mattina dall'”altra” Roma arriva il colpo di scena. «In questo tempo, nel quale si incomincia ad avere disposizioni per uscire dalla quarantena – dice il Papa – preghiamo il Signore perché dia al suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e della obbedienza alle disposizioni, perché la pandemia non torni». Parole sante, soprattutto mentre il clima generale, con un eccesso di ottimismo, è quello del “tana libera tutti” degli ultimi giorni di scuola, in attesa della campanella. Ma anche parole che hanno scatenato una ridda di interpretazioni contrastanti, fra le quali sembra predominare la convinzione che papa Francesco abbia sconfessato la linea dura della Conferenza Episcopale Italiana, per sposare nuovamente la “santa prudenza” di Conte. La politica, in fondo – diceva Paolo VI – è la forma più alta ed esigente della carità. Speriamo.
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