La Messa sospesa. Lo “stress test” del cristianesimo

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Se a Napoli hanno inventato ‘o cafè suspiso, è però al Nord Italia che il coronavirus ha portato la “Messa sospesa”. Uno stress test per il cristianesimo.

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Siamo ormai prossimi alla seconda “sospensione eucaristica” di questa epidemia, e i media sono già lastricati delle vesti stracciate tolte dal guardaroba dei più improbabili difensori della cristianità (per una volta dalla poca fede dei vescovi e non del Papa, si intende). Senza alcuna pietà per le orecchie e gli occhi del pubblico incauto, che adescato dalla sete di notizie, si trova suo malgrado ad affrontare santi plasmati a proprio tornaconto (Giovanni Bosco, Carlo Borromeo e Agostino su tutti) e le esternazioni di chi sembra rimpiangere i bei tempi andati nei quali, ignorando l’esistenza dei virus e la loro trasmissione, gli uomini di Chiesa godevano della libertà di ignorarle.

Mentre le Messe vengono comunque celebrate (solo temporaneamente senza concorso di popolo) e le chiese sono aperte pressoché ovunque, rimane il dubbio che sfugga qualcosa. «I frutti della Messa sono destinati a maturare nella vita di ogni giorno – ammoniva papa Francesco qualche tempo fa – perché la Messa è come il chicco di grano, che ci separa dal peccato e c’impegna nei confronti degli altri, specialmente dei poveri, a passare dalla carne di Cristo alla carne dei fratelli». È l’Eucaristia che fa la Chiesa, che «ci unisce tutti». Dalla Messa alla vita, perché la celebrazione trovi compimento nelle nostre scelte quotidiane. E allora perché, invece di chiuderci nelle case e al prossimo, rimuginando sulla frustrazione di un (indubbio) bisogno temporaneamente negato, non ci apriamo, invece, ad un tempo di maturazione, lasciando che quel chicco cresca e porti frutto?

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Questo tempo, nonostante saremmo portati a ritenere il contrario, è in verità un tempo propizio, anche grazie al venire meno delle false sicurezze, fisiche anzitutto, ma sempre più probabilmente anche economiche. Riscoprendoci fragili come argilla. «Misurarsi con la fragilità dell’argilla di cui siamo impastati – ricordava il Papa – è un’esperienza che ci fortifica: mentre ci fa fare i conti con la nostra debolezza, ci apre il cuore a invocare la misericordia divina che trasforma e converte. E questo è quello che facciamo nell’atto penitenziale all’inizio della Messa».

Già, ma senza Messa come si fa? «Non basta non fare del male al prossimo – proseguiva Francesco – occorre scegliere di fare il bene». È l’insidia delle omissioni, che consistono nel tralasciare «di fare il bene che avrei potuto fare». E che, «per paura o vergogna», mi conduce a «puntare il dito per accusare gli altri».

Qualcuno ha detto che il Covid-19 sarebbe una punizione divina. Altri lo hanno negato. Se invece, più prosaicamente, fosse l’ennesimo kairos, l’ulteriore occasione in cui il nostro modo di vivere la fede viene messo alla prova? Uno stress test, per mutuare un linguaggio finanziario, che non supereremo (soltanto) con il ripristino della celebrazione eucaristica ogni domenica, né tanto meno con l’onnipresente bisticcio interno alla comunità cristiana.

Le nostre società sempre più secolarizzate sembrano ignorarlo, ma «senza Cristo siano condannati ad essere dominati dalla stanchezza quotidiana». Non solo nel corpo, ma anche nello spirito. Il rischio è che, insieme al soddisfacimento del precetto domenicale, venga meno anche il tempo del riposo. Certo non del riposo ozioso, ma di quello fattivo. Più che il sacrosanto riposo, il riposo santo.

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Perché il pericolo non è l’avviso di sospensione affisso sulla porta della chiesa, ma che la nostra vita di fede si fermi di fronte a quell’avviso. E gli volti le spalle, per tornarsene a casa. «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi». Una delle pagine più belle, al tempo stesso più terribili, del Vangelo.

Ci sono malati (non solo di coronavirus) che anche in questi giorni così particolari non sono lasciati soli. Ci sono anziani, fermati dalla prudenza o dalla paura, che trovano aiuto anche solo per fare la spesa. Ci sono famiglie, separate dai molti, troppi impegni di ogni giorno, che si ritrovano, anche attorno alla preghiera. Ci sono sacerdoti, religiosi e religiose che non hanno esitato a mettersi in gioco pur di non abbandonare le comunità loro affidate. Belle realtà che nessuna intervista racconterà mai, tanto meno se venata di polemica.

Esistono mancanze che restano come un vuoto, ed altre che possono essere riempite, per quanto possibile. Le prime sono lo scandalo di una moneta sepolta, le seconde un’opportunità che si è saputo cogliere. Certo, non bastano le opere di carità se manca la carità delle opere, come diceva il vescovo di Molfetta, mons. Tonino Bello. Un’espressione che sintetizza magistralmente lo stile cristiano di fare il bene e che smaschera i tanti “cristiani moderni” che vorrebbero cancellare la fede con le opere e sostituire il Bene con la beneficenza. Ma anche i molti che ancora si interrogano: «​Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori?». Siamo chiamati a concedere spazio a Dio nel bene fatto al prossimo. Ma anche a permettere al prossimo di entrare nella nostra vita di fede insieme con Dio. Riunendo nella carità ciò che la superbia divide.

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