Chi non conosce le poesie di Andrzej Jawién non può comprendere la persona e il pontificato di Giovanni Paolo II. Perché Andrzej Jawien è Karol Wojtyla, il sacerdote e poeta di Cracovia. Un grande insegnamento per questo nostro 1° maggio.
«Il mondo che io creo non è buono / eppure non sono io che lo rendo malvagio! / Ma questo basta?». Si conclude così la poesia Operaio in una fabbrica d’armi, pubblicata nel 1958 sulla rivista cattolica d’opposizione Tygodnik Powszechny. La poesia raccoglie in pochi versi le domande e le giustificazioni date a sé stesso di un operaio impegnato a fabbricare viti in un’anonima fabbrica polacca – ma potrebbe essere la fabbrica di ogni dove, Italia compresa – che con il suo lavoro contribuisce – in che misura? – alla violenza che ferisce il mondo. Siamo nei difficili anni della Polonia comunista e anche scrivere poesie può essere pericoloso, sopratutto per un sacerdote. E Andrzej Jawién, l’autore della poesia, è proprio questo. Giovane sacerdote a Niegowić, poi parroco di San Floriano a Cracovia e infine vescovo ausiliare nella stessa città. “Infine”. Tutt’altro che una fine, in realtà. Perché per Karol Wojtyla, il vero poeta che si cela dietro allo pseudonimo di Andrzej Jawién, quell’incarico non è che l’inizio di un cammino che l’avrebbe condotto fino al soglio di Pietro.
Chi non conosce le poesie di Andrzej Jawién non può comprendere la persona e il pontificato di Giovanni Paolo II. Nei suoi scritti, anche quelli scritti nella più giovane età, Karol Wojtyla infonde i sentimenti che ne avrebbero caratterizzato l’intera vita pastorale, anche da pontefice: il patriottismo fatto di amore viscerale per la propria terra e per la storia di un popolo che travalica i secoli, l’amore materno e familiare che sublima nella devozione mariana, e sopra ogni cosa la vittoria del Vangelo, anche sulla morte.
Le poesie di Karol Wojtyla sono un diario e al tempo stesso una mappa della sua personalità. Grande spazio vi trovano l’abbraccio ai giovani, mediato dall’amore per la natura e l’escursionismo, come nel La bottega dell’orefice, dramma in tre tempi che nel 1989 sarebbe divenuto un film, per la regia del britannico Michael Anderson. Ma soprattutto l’esperienza personale del lavoro, anche in tempo di guerra, come cavatore di pietra e operaio alla Solvay.
Wojtyla si immerge completamente nel mondo del lavoro, cogliendone gli aspetti più profondi, fino al cuore dell’uomo. È lo stesso Giovanni Paolo II a ricordarlo nel suo Dono e Mistero (Libreria Editrice Vaticana, 1996), scritto in occasione del 50° anniversario di sacerdozio: «Lavorando manualmente, sapevo bene che cosa significasse la fatica fisica. Mi incontravo ogni giorno con gente che lavorava pesantemente. Conobbi l’ambiente di queste persone, le loro famiglie, i loro interessi, il loro valore umano e la loro dignità». Valori che, negli anni in cui scrive il giovane Wojtyla, sono minacciati dalla violenza della repressione. È quanto accade nel giugno 1956, in occasione delle agitazioni degli operai delle officine Stalin di Poznan, che rivendicano diritti e il miglioramento delle condizioni di lavoro. La reazione del regime comunista è durissima: vengono fatti intervenire i carri armati e le vittime si contano almeno in un centinaio.
È anche questo retroterra di dolore e di speranza che emerge con forza nella raccolta di poesie La cava di pietra, composta nel 1956 e pubblicata con il consueto pseudonimo di Andrzej Jawién l’anno successivo sulla rivista cattolica Znak. I componimenti fanno memoria dei giorni in cui Wojtyla lavora nelle cave di Zakrzowek, non lontano da Cracovia, dove si reca ogni giorno a piedi. Per Wojtyla, giovane seminarista, il duro lavoro nelle cave è un modo per sottrarsi alla deportazione in Germania, ma anche un’esperienza che tocca le corde più intime della sua spiritualità. «Dopo gli anni della prima giovinezza, seminario per me divennero la cava di pietra e il depuratore dell’acqua nella fabbrica di bicarbonato a Borek Falecki», ricorda lo stesso Giovanni Paolo II in Dono e Mistero. «E non si trattava più soltanto di pre-seminario, come a Wadowice. La fabbrica fu per me, in quella fase della vita, un vero seminario, anche se clandestino. Avevo cominciato a lavorare nella cava dal settembre 1940; dopo un anno passai al depuratore dell’acqua nella fabbrica. Furono quelli gli anni in cui maturò la mia decisione definitiva».
Attraverso il lavoro – il proprio e la condivisione di quello altrui – a Karol Wojtyla si dischiudono verità importanti, anzitutto sul ruolo dei laici nella Chiesa e sul valore unico del sacerdozio. «A Roma però ebbi la possibilità di cogliere più a fondo quanto il sacerdozio sia legato alla pastorale ed all’apostolato dei laici», riflette Giovanni Paolo II. «Tra il servizio sacerdotale e l’apostolato laicale esiste uno stretto rapporto, anzi un reciproco coordinamento. Riflettendo su queste problematiche pastorali, scoprivo sempre più chiaramente il senso ed il valore dello stesso sacerdozio ministeriale».
Senza ideologie, politiche, clericali o laiciste che siano. Ma con un grande amore per il Vangelo e per l’uomo. «Ascolta, il ritmo uguale dei martelli, così noto, / io lo proietto negli uomini, per saggiare la forza d’ogni colpo. / Ascolta, una scarica elettrica taglia il fiume di pietra, / e in me cresce un pensiero, di giorno in giorno: / tutta la grandezza del lavoro è dentro l’uomo». Un grande insegnamento per questo nostro 1° maggio: per il profondo valore del lavoro, per una “fase 2” della quale in pochi sono disposti ad ammettere le incognite, per la dignità dell’uomo e della sua salute che non possono essere subordinate a calcoli economici o politici.
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