Perché nelle epidemie i cristiani muoiono meno? Lo aveva capito Giuliano l’Apostata.
Soltanto chi non è cristiano deve temere le epidemie, perché per i cristiani la morte non è l’ultima parola. Un assunto radicale, che – senza perdere alcunché della sua verità – suona duro da accettare ai nostri giorni. Ma che appariva scontato, nel III secolo dopo Cristo, ai vescovi Dionisio di Alessandria e Cipriano di Cartagine. Non che mancasse l’occasione di sperimentarlo. Si stima che a quel tempo, in una delle più devastanti epidemie conosciute dall’Impero Romano, morirono circa 20 milioni di persone, quasi un terzo della popolazione totale dell’Impero. Un’epoca di crisi umana e sociale con pochi eguali nella storia, ma anche di straordinaria crescita del Cristianesimo, l’unica fede in grado di fornire conforto e risposte plausibili all’immane sofferenza.
Ma c’è di più. Fra i cristiani la mortalità a causa del morbo era inferiore. Una sensazione già riferita dai commentatori dell’epoca, percepita come sovrannaturale e per questo di ulteriore impulso alla diffusione del Cristianesimo, ma anche un dato confermato dalla storia e dalla scienza. Nulla a che vedere, affermano, con una “invulnerabilità”, quanto piuttosto con la dottrina cristiana che, orientata al servizio dei poveri e dei malati, avrebbe contribuito in maniera decisiva ad innalzare il tasso di sopravvivenza. Non solo: i numerosi cristiani guariti andavano ad ingrossare le fila degli immunizzati alla malattia, portandoli a mettersi, senza rischio, al servizio dei malati, destando la meraviglia dei pagani. La ricerca storica ha addirittura quantificato questo “effetto protezione”: se prima della grande epidemia del III secolo il rapporto fra cristiani e pagani era di 1 a 249, dopo la grande moria si contava un cristiano ogni 160 pagani.
Può forse oggi farci sorridere, figli e figlie della razionalità illuminista e dell’aridità del progresso, ma allora il turbamento religioso fu tutt’altro che irrisorio. Basti dire che nel IV secolo niente meno che l’imperatore Giuliano, noto come l’Apostata per la sua avversione al Cristianesimo (e all’Ebraismo), riprese duramente i sacerdoti dei culti pagani per la loro evidente mancanza di supporto sociale, oltre che religioso. «Non solo – constatò amaramente l’imperatore – [i cristiani] aiutano i loro poveri, ma anche i nostri. Tutti possono vedere come la nostra gente non riceva aiuto da noi». Un paradosso di non poco conto, per un imperatore che aveva fatto dell’interesse per la medicina e della lotta alla “malattia” del Cristianesimo una bandiera. Ed è certo che proprio la carità cristiana dovette giocare, insieme ai “prodigi” già ricordati, un ruolo importante nelle conversioni.
Ben altra sorte, invece, ebbe l’invito di Giuliano ai sacerdoti pagani ad emulare la virtù dei cristiani. Tanto questi rimanevano a prendersi cura dei propri vicini, quanto i primi li abbandonavano, invece, al primo segno del morbo. Il problema, però, non risiedeva nella mancanza di carità dei pagani, quanto piuttosto nella profonda differenza fra le religioni pagane e il Cristianesimo. Quest’ultimo, infatti, poteva contare sull’esempio unico – e troppo spesso disconosciuto – di un Dio morto per amore, che aveva comandato ai propri discepoli di amarsi gli uni gli altri. È d’altronde risaputo che per i pagani il tratto più evidente delle prime comunità cristiane fosse l’amore vicendevole. Tanto nella quotidianità quanto nella prigionia, nella povertà, nel martirio o nella malattia. Un valore che la società pagana non riconosceva né tanto meno era in grado di suscitare, a maggior ragione verso gli ultimi.
L’appello di papa Francesco a pregare affinché i sacerdoti abbiano il coraggio di uscire e andare dagli ammalati, in questi nostri difficili giorni di coronavirus, portando la forza della Parola di Dio e l’Eucarestia, e accompagnare gli operatori sanitari e i volontari, è figlio anche di questa storia millenaria.
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