«Tuti i vołe védarme: son propio na bestia rara!». Giuseppina Bakhita, esprimendo in quel suo dialetto veneto divenuto famoso lo stupore per la curiosità che suscitava negli altri, diceva la verità. Davvero una “bestia rara” questa prima santa sudanese, sottratta alla sua terra natale e costretta a diventare una “extra-comunitaria” in terra straniera. Così simile alle tante schiavitù del mondo moderno.
Bakhita ha 13 anni quando viene venduta per la sesta volta. Sul corpo e nell’anima porta le ferite della sua giovane vita di merce di scambio, dal rapimento dal suo villaggio nella regione del Darfur da parte di mercanti arabi di schiavi alle torture patite per mano di un generale turco, che le incide con un rasoio un centinaio di tatuaggi sul corpo, escluso il volto. Pezzi di vita che le vengono strappati ad ogni transazione. A scivolare via per primi sono il ricordo del proprio nome e quello dei familiari: i rapitori le impongono quello di Bakhita, “fortunata”.
Bakhita ha 13 anni quando viene venduta per la sesta volta, ma questa volta a riscattarla è il console italiano a Khartum, Callisto Legnani. Nell’impossibilità di vedersi restituita alla propria famiglia, della quale la giovane non conserva memoria, Bakhita segue il diplomatico in Italia. È l’inizio della sua nuova vita da “extra-comunitaria”, prima a Genova poi a Venezia, dove scopre la fede cristiana e un nuovo Padrone. «Quanto bon che xé el Parón. Come se fa a no vołerghe ben al Parón?». Quanto è buono il Padrone. Come si fa a non voler bene al Padrone? Nuovo Padrone di Bakhita è Dio. A 21 anni, ospite delle Figlie della Carità, Bakhita viene battezzata e poco dopo entra fra le canossiane e come tale vive per oltre 50 anni nella comunità religiosa di Schio, nel vicentino. Lì la “Madre Moréta”, come è ribattezzata dagli abitanti, muore l’8 febbraio 1947, amata e venerata dal popolo veneto.
«Poareta mi? Mi no son poareta perché son del Parón e neła so casa: quei che non xé del Parón i xé poareti». Non sente di meritare il compianto della gente, Bakhita. Ospite della casa del Signore e interamente votata a Lui, guarda essa stessa ai veri poveri: quanti nel corpo e nell’anima sono resi schiavi ai giorni nostri. «In lei troviamo un’avvocata luminosa di emancipazione autentica», ricordava Giovanni Paolo II nell’omelia per la canonizzazione di Bakhita, il 1° ottobre 2000. «La storia della sua vita non ispira l’accettazione passiva, ma la ferma determinazione a operare efficacemente per liberare ragazze e donne dall’oppressione e dalla violenza e restituire loro dignità nel pieno esercizio dei loro diritti».
Le schiavitù oggi
Matrimoni forzati, traffico di esseri umani, migrazioni imposte dalla guerra e dalla distruzione sociale e ambientale, debito estero soffocante, pedofilia, fino alla schiavitù del consumismo e di una falsa emancipazione: sono solo alcune delle moderne schiavitù, che lungi dall’essere confinate in lontane regioni del mondo delle quali potersi dimenticare, sempre più spesso bussano alle porte delle nostre cose. Vicine a Bakhita sono oggi le tante schiave dell’Africa, dell’Asia e dell’Europa dell’Est che nel civilissimo Occidente subiscono le umiliazioni del commercio sessuale. Appetiti cannibali di un Occidente che ha fatto dell’edonismo la sua ragione d’essere.
Traffico di organi
Ultimo dramma ad essere scoperchiato è il traffico di organi. Secondo stime dell’Oms sono circa 1 milione ogni anno gli interventi per trapianti di organi, laddove quelli veramente necessari sarebbero a malapena il 10% (120.000). La maggior parte dei trapianti riguarda i reni, che rappresentano il 75% del commercio illegale, seguiti da fegato, cuore, polmoni, pancreas e intestino. Un commercio in crescita, che si nutre di persone in condizioni di povertà e debolezza, di migranti, prigionieri giustiziati e sempre più spesso di bambini. Tra i luoghi più colpiti Asia, Messico e America Latina, Egitto, Pakistan, India. Principali destinazioni degli organi il Canada e i Paesi dell’Europa occidentale, l’Australia e gli Stati del Golfo persico, in particolare Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti. Dopo Singapore, anche in Iran si è giunti alla legalizzazione della compravendita di organi umani, giustificata talvolta per coprire le spese della dote di una figlia da dare in sposa.
Paura dell’amore
Schiavitù per il Pontefice può assumere anche la forma della «paura» della libertà donata da Dio. Nella «ri-creazione», ha spiegato Francesco nell’omelia di due giorni fa da Santa Marta, Dio invia suo Figlio per «ri-sistemare». Per questo «il cristiano è schiavo dell’amore, non del dovere», ha ricordato il Pontefice, mettendo in guardia da «quella preghiera chiusa, triste della persona che mai sa ricevere un dono perché ha paura della libertà che sempre porta con sé un dono. Soltanto sa fare il dovere, ma il dovere chiuso. Schiavi del dovere, ma non dell’amore. Quando tu diventi schiavo dell’amore, sei libero! È una bella schiavitù quella!».
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