Cazzate e casini. La via dell’emancipazione?

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Abitudine, moderna liberalità (al ribasso) o porta sbattuta in faccia al confronto. La via dell’emancipazione passa per la parolaccia, ma è una strada chiusa.

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Hai rotto, Boccapaduli!, avrebbe sbottato Benedetto XIV leggendo oltre. Eppure servirebbe qualche moderno maestro di camera, o “mostro di camera” com’era detto impietosamente da papa Lambertini, a tirare la manica – se non al Papa – a qualche cardinale facchinesco. A cominciare dal prefetto del Dicastero per la dottrina della fede, il card. Víctor Manuel Fernández. Il cui linguaggio, in più occasioni, ha già fatto parlare di sé più per stile che per contenuti.

Ultima in ordine di tempo, la conferenza stampa di presentazione delle Norme per il discernimento di presunti fenomeni soprannaturali. Librandosi fra apparizioni mariane e consimili, il card. Fernández ha perso quota nel riferimento ai presunti guaritori: «Certo è che se non vive nella grazia sentificante è piu facile che faccia delle cazzate e che usi quel suo dono per fare del male».

Non stracciamoci le vesti (o le gonne plissettate): il peccato è veniale e, se vogliamo dirla con Stalin, «non è tempo di offendersi. Non siamo educande, siamo bolscevichi». Ad essere offeso è piuttosto il buon gusto di un’occasione formale – per giunta ecclesiale – che probabilmente avrebbe meritato un eloquio meno feriale. Difficile immaginarsi un’uscita di questo tenore con più d’uno dei predecessori del “Tucho”, ma bisogna ammettere che il paragone non regge e tradisce il gusto di vincere facile.

Che la parolaccia non sia “scappata”, ma appartenga ad un nutrito repertorio (che con ogni probabilità avremo modo di apprezzare di nuovo), lo dimostra un altro episodio recente. Giustificando la parentesi su Fiducia supplicans aperta durante la presentazione di Dignitas infinita, lo stesso card. Fernández spiega che «non possiamo fare come se non fosse successo niente, come se stessimo scappando dalla realtà con tutto il casino che c’è stato». Unendo le energiche reazioni alla Dichiarazione sulle benedizioni “extra-liturgiche” con il postribolo.

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D’altro canto, la lunga tradizione della Chiesa è ricca di precedenti e avara di inediti. Riprendendo lo stesso canovaccio, in molti in questi giorni hanno evocato il turpiloquio di papa Benedetto XIV, ricordato anche in apertura. Bolognese ma parolacciaro di adozione, riformatore, ironico protagonista della vita sociale, un po’ meno affezionato a mons. Boccapaduli, incaricato di tiragli la manica ogni volta che si fosse abbandonato ad espressioni fuori luogo (e poi rimbrottato). Di recente, episodi simili sono ricordati da Dino Baldi in Vite efferate di papi (Quodlibet Compagnia Extra, 2015) e da Gilles Jeanguenin in Scherzi da papa. Aneddoti e curiosità sotto la cupola di San Pietro (Fede & Cultura, 2022).

Inutile, in questo caso, andare però troppo indietro con la storia. Per udire un improperio affiorare sulle petrine labbra è sufficiente tornare al 2018. È allora che per Francesco i vescovi che hanno coperto casi di preti pedofili sono caca. E per non lasciare spazio a dubbi, parlando (in privato) con un gruppo di vittime di abusi durante il viaggio apostolico in Irlanda, il Papa ricorre anche all’inglese: shit. D’altronde, l’abilità di evocare immagini efficaci l’ha imparata dai Gesuiti, così come le parolacce dal nonno ligure. «Con lui si parlava in spagnolo, non so perché. Di genovese ho imparato solo le parolacce».

Non che il Papa sia un sostenitore delle parolle do gatto, anzi. Parolacce, insulti e ipocrisie sono schiaffi all’anima di fratelli e sorelle e ostacolano la riconciliazione, sostiene. Che, alla base, vi sia anche un problema educativo è di giorno in giorno più evidente. «È sufficiente andare per strada in ora di punta e, magari un motorino si mette di lato e c’è una macchina dall’altra parte e subito, invece di dire “scusa”, incomincia la litania di parolacce, una dietro l’altra. Siamo abituati ad insultarci». E serve poco a consolarci il pensiero che «le parolacce non sono belle, ma le bestemmie sono le più brutte».

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Che dire, però, degli adulti? E soprattutto di certi adulti, tutt’altro che privi di una buona educazione, almeno in quanto a studi? «Certe volte viene da pensare che stiamo diventando una civiltà delle cattive maniere e delle cattive parole, come se fossero un segno di emancipazione. Le sentiamo dire tante volte anche pubblicamente».

Viene il sospetto che il problema stia proprio qui, nell’imbruttimento più o meno triviale dello stile, spacciato per accessibilità. Un’emancipazione del linguaggio verso il basso, premiata dal plauso dei pari, brevilinei pure loro, che laggiù hanno l’illusione di sentirsi meno soli. Dove la parola che fa parlare di sé è parolaccia e il farsi prossimo è rendersi volgare.

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