Di “-aggine” e altri suffissi

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-ismo, -osità e -ile. Perché i suffissi hanno una storia interessante da raccontare.

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La Chiesa vive anche di ritualità e ricorrenze, che si ripetono uguali a sé stesse. Profani, direbbero che al cerchio segue immancabilmente una botte. Maliziosi, che alla circonferenza spesso corrispondono documenti e dichiarazioni pubbliche, mentre al barile incontri personali, prefazioni a libri, telefonate e lettere “private” che hanno per destinatari quanti sono più o meno chiamati in causa dal vanto di Giotto.

Si potrebbe applicare questa ricorrenza – ma sarebbe profanità e malizia insieme – al recente incontro del Santo Padre con alcune persone transgender e omosessuali in piazza San Pietro, alla lettera di incoraggiamento inviata a un seminarista con tendenze omosessuali e alla prefazione per un libro dell’attivista gay James Martin. Il tutto dopo i fatti del “-aggine”. Il suffisso.

Parlando di suffissi, hanno una storia interessante da raccontare. D’altronde, non l’uso di un modesto “-ezza“, bensì di un più colorito “-aggine” lascia pochi dubbi sulle sfumature di ciò a cui ci si riferisce, sia esso termine d’uso abituale o «riferito da altri». Poco plausibile che, nell’evocare il sostantivo “-io“, si alludesse al tedesco o all’inglese indebitamente imbucati in seminario, secondo l’etimologia del gergo romanesco dei “birbi” compilata da Luigi Zanazzo ad inizio ‘900.

Illustri personalità hanno ricondotto la “-aggine” ad una realtà consortile, la ben nota “lobby gay”, quando non ad una precisa ideologia “-ista“. Un “-ismo“, insomma, fra i molti già condannati dal Papa, a cominciare da comunismo e consumismo, per finire con efficientismo e funzionalismo.

D’altro canto, che anche nella Chiesa vi sia una buona dose di “-osità” è fuor di dubbio. Difficile, però, superare il confine della sensazione e fondare l’affermazione sui numeri. Come riferiva solo pochi giorni fa un articolo di Andrew Sullivan del New York Magazine comparso sul settimanale Internazionale, «inchieste indipendenti sulla Chiesa statunitense – che comprende 37 mila sacerdoti – sono arrivate a conclusioni diverse: per alcune i preti omosessuali sarebbero meno del 15 per cento del totale, secondo altre addirittura il 60 per cento. Dalle mie ricerche emerge che sono intorno al 30-40 per cento tra i diocesani e molti di più – almeno il 60 per cento – in ordini religiosi come i francescani e i gesuiti».

Ridurre la “-osità” (o la “-aggine”) alle sole sfumature della sessualità, o peggio ancora alle cifre, sarebbe però un errore. La “-osità” è resa tanto più evidente in alcuni moti del corpo e del carattere, sovente frammista all’esagerata infatuazione per lo spettacolismo della liturgia e di sé, che poco o nulla ha a che vedere con le pulsioni. Frequente che la “-osità” faccia rima con un desiderio di visibilità, in special modo sui social dell’esposizione di massa, dove per giunta la “-osità” dà l’illusione di essere premiante, se non altro nel suscitare umorismo. Tacendo delle ragioni e delle conseguenze.

Restano – e resteranno a lungo – da chiarire le ragioni di tale “-osità” nella Chiesa. È voce comune che, nell’ampia varietà delle storie di vocazione, il contesto ecclesiastico eserciterebbe un fascino alternativo su alcune persone, attirandole per diversi motivi verso un ambiente percepito come protetto e protettivo, se non deresponsabilizzante. Una “-alità”. Più subdola è la lettura secondo cui la Chiesa sarebbe un ambiente addirittura “-izzante“, quasi che certune condotte, vizi e tendenze possano essere alimentate dal contesto. O magari dall’onnicolpevole celibato ecclesiastico.

In quanto a suffissi, in passato più d’uno ha preteso suggerire un’idea di Chiesa come di “-eria“, se non di “-ile“. È il caso di Lussuria. Peccati, scandali e tradimenti di una Chiesa fatta di uomini (Feltrinelli, 2017) del giornalista italiano Emiliano Fittipaldi.

O, ancora, del chiacchierato Sodoma (Feltrinelli, 2019) del giornalista francese Frédéric Martel, secondo cui oltre l’80% dei prelati in Vaticano sarebbe omosessuale (o “della parrocchia”, come vorrebbe lo slang d’Oltretevere). «Praticanti» (non solo della fede), «omofili», «iniziati», «unstraights», «mondani», «versatili», «questioning», «closeted» sono solo alcuni dei tratti che Martel abbina ad un vero e proprio «sistema sociale», proposto come chiave di lettura per gli “scandali” (e fossero solo questi il problema) degli ultimi decenni. Insomma, nell’inesauribile fantasia del possibile, ogni suffisso è buono. Per amor di Dio. Anzi, di grammatica.

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