Il desiderio di visibilità e consenso dà fiato alla bocca e muove piccoli piedi in scarpe decisamente troppo grandi. E passi troppo lunghi.
Che all’interno delle cabine di voto l’elettorato cattolico sia sempre stato, nel bene e nel male, molto indipendente dalla linea della Chiesa è ampiamente confermato dalla storia politica di molti Paesi, a cominciare dall’Italia. Ma è curioso come nel tempo si sia ampliato il divario fra la preferenza di voto e l’appartenenza di fede, a tutto vantaggio di candidati in aperta – e, almeno verbalmente, violenta – opposizione alla Chiesa cattolica.
Argentina e Filippine
È il caso di Javier Milei. Dopo aver definito papa Francesco «imbecille», «affine ai comunisti assassini», «rappresentante del male» e promotore di «politiche ecclesiali di m***a», Milei è stato premiato con quasi il 56% dei voti, per giunta nell’Argentina che attende la prima visita di Bergoglio da pontefice.
Se si danno per buoni i risultati di un sondaggio del 2019 che indicano i cattolici in Argentina pari al 62,9% della popolazione, qualcosa non torna. Plausibile insofferenza verso la difficile situazione del Paese, che ha spinto una grande maggioranza di elettori a imboccare il cammino della contestazione, ma anche chiaro sintomo di uno scollamento in seno al mondo cattolico, con buona pace di chi, in seguito ai pesanti insulti rivolti al pontefice, dava già a rischio la candidatura di Milei. Notevole il tandem di Milei con la vicepresidente eletta, Victoria Villarruel, indicata come cattolica tradizionalista, non priva di legami con la Fraternità sacerdotale San Pio X.
Al netto di scuse, rosari e congratulazioni di circostanza, Javier Milei non è che l’ultimo esempio in ordine di tempo. Nel 2016 ha destato scalpore l’elezione a presidente delle cattolicissime Filippine di Rodrigo Duterte, che tra un «figlio di p*****a» e un «tornatene a casa e non visitarci più» non si è certo mostrato più tenero di Milei nei confronti del Papa. Né lo sono stati gli elettori filippini: per quasi l’80% cattolici, hanno premiato con il 38% delle preferenze l’irrequieto Duterte.
Pagliacci e pifferai
In un’intervista all’agenzia argentina Telam, rilasciata prima delle elezioni che hanno consacrato Milei presidente della sua terra natale, Francesco ha messo in guardia contro i «pagliacci del messianismo» e i «pifferai magici». Volendo scorgervi un riferimento a Milei, e a voler condividere il giudizio del Papa, si tratterebbe quanto meno di una compagnia numerosa. Sempre più spesso, infatti, il desiderio di visibilità e consenso dà fiato alla bocca e muove piccoli piedi in scarpe decisamente troppo grandi. E passi troppo lunghi.
Una scelta che, malauguratamente, sembra però pagare in termini elettorali, come dimostra una parte consistente del panorama politico internazionale, a cominciare dalla riproposizione del tandem Biden-Trump alle prossime elezioni Usa: una coppia di candidati già fin d’ora invisa alla maggioranza dei cittadini statunitensi, ma forte di una demagogia, di segno opposto, che finora ha impedito il ricambio generazionale (e di buon senso).
Scissioni e scismi
Anche la Chiesa offre da tempo esempi sin troppo numerosi di «pagliacci» e «pifferai», attori o interpreti di quella polarizzazione crescente che si nutre al trogolo del mondo virtuale, per finire con il consumare la fede reale.
Basti pensare all’affaire Joseph Strickland, vescovo della diocesi di Tyler, negli Stati Uniti, rimosso da papa Francesco in seguito alle critiche taglienti espresse dal prelato, che vanta più follower sui social che fedeli in chiesa. Non si tratta di una battuta: dati alla mano, se la diocesi texana di Tyler può contare su meno di 120 mila residenti cattolici (dati USCCB), Strickland è forte di oltre 173 mila follower solo su X (il fu Twitter). Dimostrazione empirica del nuovo potere della Rete.
In attesa di definire meglio contorni e implicazioni a venire dei provvedimenti economici e delle pene canoniche che papa Francesco sembra abbia prospettato nei confronti di esponenti della fronda più oltranzista dell’episcopato statunitense – misure già oggetto di contestazione nel merito –, sembra evidente l’esistenza di una scissione ideologica, se non ancora di uno scisma effettivo, numericamente più consistente rispetto all’inquietudine di pochi cardinali “dubbiosi”. Un’opposizione che, in qualche caso, è andata ben al di là delle perplessità che, pur legittimamente, un pontificato come quello di Francesco – e probabilmente di ogni papa – può suscitare, finendo con l’alimentare una divisione suicida nella Chiesa.
Perché non manca, altresì, un’azione di erosione condotta, più o meno consapevolmente, da numerosi esponenti dell’opposta fazione. Su tutti, i capofila del Cammino sinodale tedesco, giunto ormai ad essere inviso perfino nella Roma “rivoluzionaria” e sinodale di Francesco, giù fino agli araldi di raffazzonate pastorali ad alta gradazione mediatica. Nel complesso, se si tratta di un circo, lo spettacolo che va in scena non può che dirsi di pessimo gusto.
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