Dignitas e frociaggine

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La dignità e quello stile del potere. In viaggio verso il fondo del pozzo.

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Il confronto avrebbe dell’impietoso: l’attenzione di cui ha goduto la recente dichiarazione del Dicastero per la dottrina della fede Dignitas infinita e quella riservata alla boutade di papa Francesco sulla frociaggine nella Chiesa. Impietoso, ma anche indicativo delle logiche che, in questo tempo, scandiscono occupazioni e preoccupazioni. Il tema del momento è servito. Utile per fare conversazione più delle bizze del clima. Mi si farà osservare: il livello è diverso, come paragonare il documento di un Dicastero ad una singola espressione, per giunta salace? Ecco però che la dignità – della forma e della sostanza, dei luoghi, delle persone, del proprio ruolo – ha ceduto il passo. Ma a cosa?

Ardite circonlocuzioni provano ad intessere trame complottiste. In altri casi, anche alla luce di precedenti dichiarazioni di papa Francesco, si avanza una sua condanna del sistema lobbistico (la “frociaggine”), ma non della persona (il “frocio”). Forse, con più aderenza alle intenzioni di Francesco, ne viene una presa di distanze da un certo tipo di modus sentiendi che, con buona pace del politically correct, è associato ad una scarsa virilità.

D’altronde, è notizia di queste ore che del medesimo discorso del Papa ai vescovi (alla presenza di sacerdoti, laici e laiche) farebbero parte affermazioni come «Il chiacchiericcio è una roba da donne» e «Noi abbiamo i pantaloni, dobbiamo dire le cose». Sessismo, direbbe qualcuno. Forse, più banalmente, un’attribuzione di ruoli (e di abiti) che, se ha mai valicato il confine dei luoghi comuni, oggi appare démodé.

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D’altro canto, al di là della forma boccaccesca, è piuttosto evidente la strada imboccata da una parte della Chiesa negli ultimi decenni. Almeno a chiunque abbia avuto modo di visitare alcuni seminari in anni recenti: illuminante per farsi un’idea approssimativa del presbiterio nella Chiesa e nella società che verranno.

Di tutto ciò il linguaggio è presupposto e conseguenza. Si è scritto su queste pagine, poco prima che il sinistro lessicale divenisse di pubblico dominio, che la parolaccia è diventata una forma di rappresentazione del potere, la rozzezza uno stile di condivisione, l’insulsaggine uno strumento di accessibilità.

Non è un caso che la medesima situazione si rinvenga nella politica. Fra i molti articoli scritti in questi giorni, due in particolare hanno il merito di proporre, oltre ad una lettura dei fatti, anche una possibile spiegazione.

Alla giornalista, scrittrice ed ex politica italiana Flavia Perina si deve il pungente “Il linguaggio del potere tra er Monnezza e Banfi”, comparso sulle pagine di lastampa.it. L’attacco del pezzo la dice lunga: «Nel Secolo Vecchio non avremmo mai immaginato un’Italia dove il Papa si esprime come Lino Banfi-Fri Fri e la presidente del Consiglio come Tomas Milian-Er Monnezza. Ecco, ora siamo arrivati lì e il doppio uppercut verbale ci stordisce con la straniante sensazione di vivere in un cinepanettone che ogni giorno supera se stesso con le sue trame sboccate».

Ma perché? La domanda è tutt’altro che ridondante. E la risposta di Perina è interessante. «Esagera. Persegue l’ammiccamento del pubblico, la risata, la gomitata al fianco del vicino. Si danna per ottenere il momento-Anvedi, parola fatidica che la Capitale associa a ogni situazione memorabile ma anche all’incidente catastrofico, alla buffonata estrema o al passaggio di una bellezza in short». In altri termini, visibilità e indici di gradimento, in «un libero esercizio di sintonia con il popolo sovrano». Perina, prudentemente, applica la spiegazione alla politica. Domandiamoci: vale anche per una parte della Chiesa?

Che la parolaccia la dica lunga sull’esercizio del potere è opinione anche di Fabrizio Roncone, navigato cronista della politica, sul corriere.it. «Un po’ il senso di onnipotenza, una certa patetica arroganza, e un po’ anche perché forse pensano che faccia fico e porti sorrisi, consenso, voti». C’è della sintonia. E, di nuovo, viene spontaneo domandarsi se le cose possano stare così anche per certi ambienti ecclesiali.

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Al confronto con l’usuale volgarità del tempo presente, la carrellata di straordinaria trivialità da aula – che sfigurerebbe in un’aula scolastica, immaginarsi in quelle parlamentari – riferita da Ronconi è quasi da collegiali. Laddove, al più, il rischio è di vedersi affibbiato un «agnello dal piede caprino», come Togliatti dal pur sempre raffinato De Gasperi. Chiosa Ronconi: «No, guardate: è un pozzo nero». Il sospetto è che il viaggio sino al fondo sia ancora lungo.

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