Nel padiglione Expo della Santa Sede spicca per valore artistico e simbolico l’originale Ultima cena del Tintoretto, proveniente dalla chiesa veneziana di San Trovaso. Realismo, simbolismo e attualità, nella tensione dell’uomo fra corpo e anima e di una storia nella quale ancora riecheggia l’angosciosa domanda «Rabbì, sono forse io?».
La storia dell’arte cristiana è animata da sempre da due spinte fra loro contrapposte, eppure artisticamente conciliabili: il gusto per l’immagine e l’attitudine al simbolico, a loro modo rappresentazioni di quella tensione fra i sensi e lo spirito, la materia e l’anima, che è uno dei tratti peculiari del Cristianesimo. Anche per questo, varcata la soglia del padiglione Expo della Santa Sede e immersosi nella penombra dell’interno, ciò che inevitabilmente colpisce il visitatore è la grande – per dimensioni, valore e contenuto – opera d’arte che lo attende sulla parete di fondo della struttura: l’Ultima cena del veneziano Jacopo Robusti, noto ai più come Tintoretto.
L’opera, rigorosamente l’originale e proviene dalla chiesa veneziana di San Trovaso, è databile al 1561-62, e venne commissionata all’artista dalla Scuola del Santissimo Sacramento, insieme alla Lavanda dei Piedi oggi conservata alla National Gallery di Londra. Impossibile non farsi sedurre dal dinamismo della composizione e dalla varietà di simboli che animano l’opera, riferibili allo stile del maestro veneziano. Caratteri che il Tintoretto svilupperà ed estremizzerà ulteriormente in composizioni successive di medesimo soggetto e che giungeranno a maturazione nell’Ultima cena dipinta fra il 1592 e il 1594, oggi conservata nella chiesa veneziana di San Giorgio Maggiore. Il confronto con la celeberrima Ultima cena leonardesca, antecedente di meno di un secolo, mostra tutta l’originalità del dipinto veneziano.
Un primo elemento di originalità è costituito dalla scelta dell’episodio rappresentato. Nel suo accostarsi all’Ultima cena, infatti, il Tintoretto sceglie di immortalare l’istante immediatamente successivo alla rivelazione da parte di Cristo dell’imminente tradimento che sarà perpetrato da uno degli apostoli, qui reso con l’umano momento di sorpresa che coglie, sbilanciati e smarriti, alcuni fra coloro che seguirono più da vicino il Cristo. Nell’articolata composizione della struttura narrativa dell’opera, il Tintoretto rompe le regole del Rinascimento e precorre modi che saranno tipicamente barocchi. Significativa a questo proposito è anche l’impostazione spaziale, evidente nel tavolo disposto di sbieco, con uno degli angoli orientato verso l’osservatore, che conferisce al dipinto un effetto completamente diverso rispetto all’ordine irenico del Cenacolo di Leonardo.
Il realismo della scena – reso attraverso una minuta varietà di oggetti del quotidiano, dalla filatrice in cima alle scale al gatto, dallo scaldavivande alla sedia di Giuda rovesciata – artisticamente concretizza e attualizza uno dei momenti chiave del Cristianesimo. Anche le bisacce, i libri, i mantelli e i bastoni da viaggio, affastellati alla bell’e meglio in un angolo della stanza, contribuiscono al verismo del momento, costituendo altresì un richiamo alla Pasqua ebraica, consumata velocemente e in piedi, memoria rituale del passaggio del Mar Rosso. Nella Nuova Mensa, animata da una forza centripeta il cui fulcro è ora il Cristo, la complessa relazione tra ordinarietà e miracolo introduce l’osservatore in un istante di poesia dimessa e intenso misticismo, nel quale l’esaltazione dell’Eucaristia, cibo di vita eterna, si mescola per la prima volta al vivere quotidiano, con il suo portato di partecipazione e volontaria esclusione.
Esempio della prima sono gli Undici, sospesi nel celebre «Sono forse io, Signore?» del Vangelo secondo Matteo; della seconda è esemplificativo Giuda, l’unico privo di aureola. Figura indubbiamente negativa, attorno a Giuda è posto però uno dei simboli più forti dell’intera scena, il vino, nella duplice immagine del vino nel fiasco posato e di quello già versato in un bicchiere. Soprattutto su quest’ultima rappresentazione, sin troppo chiaro rimando ad una delle specie dell’Eucaristia, si sono concentrate inevitabilmente le interpretazioni. Fra le più solide e affascinanti, quella che vuole il bicchiere colmo di vino come anticipazione del sangue versato da Cristo, la cui colpa ricade, più che su altri, sull’apostolo traditore.
Nel sapiente gioco di luci e ombre del dipinto, fondamentale per evidenziare la tensione dinamica dei corpi e coinvolgere emotivamente lo spettatore, ricopre un ruolo fondamentale il portico raffigurato alle spalle di Gesù. Sotto le arcate delle architetture classiche è possibile scorgere l’incedere di due figure oniriche, quasi trasparenti, probabilmente un profeta e una sibilla, sin dall’arte medievale ricorrenti simboli ante gratiam dell’Antico Testamento e delle profezie sull’avvento di Cristo. La luce diafana dell’Antica Alleanza è ora soppiantata dalla realizzazione delle attese veterotestamentarie che, pur nella sua temporanea drammaticità, introduce alla nuova luce gettata da Cristo sulla storia.
Una storia che il Tintoretto propone come sempre attuale, esemplificata nel dipinto dall’anacronismo del paggio abbigliato alla moda tardo-cinquecentesca. Una storia nella quale si imprime Giuda raffigurato di spalle, anonimo, fra gli apostoli il più vicino all’osservatore, quasi a suggerire un’identificazione con esso. Una storia nella quale ancora riecheggia l’angosciosa domanda «Rabbì, sono forse io?».
Nell’immagine: Jacopo Robusti detto il Tintoretto, Ultima cena, 1561-62, Venezia, chiesa di San Trovaso.
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Il Sismografo