Condividere e illuminare al modo di Francesco

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Condividere significa “starci dentro”, tanto da sentire sotto le dita la carne di Cristo nei fratelli, tanto che il gregge finisce con il passarti il suo odore. Significa venire presi dalla fine del mondo e lasciarsi prendere fino agli ultimi giorni, quando ciò che resta è poco più di un poncho.

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«Papa Francesco ha condiviso le ansie, le sofferenze e le speranze del nostro tempo». Ma condividere non basta. Nel ritratto composto nell’omelia delle esequie da Giovanni Battista Re, decano del collegio cardinalizio, il defunto pontefice «ha sempre cercato di illuminare con la sapienza del Vangelo i problemi del nostro tempo, offrendo una risposta alla luce della fede e incoraggiando a vivere da cristiani le sfide e le contraddizioni di questi nostri anni di cambiamenti, che amava qualificare “cambiamento di epoca”».

Si fa spesso riferimento ai temi “cari” a papa Francesco, quelli su cui sarebbe tornato con maggiore frequenza durante i 12 anni del suo pontificato. Altrettanto spesso si trascura di ricordare, però, che la lettura offerta dal pontefice è il risultato della combinazione di una sensibilità personale e della realtà fattuale, senza che l’una o l’altra possano imporsi in via esclusiva. È lo “starci dentro”, tanto da sentire sotto le dita la carne di Cristo nei fratelli, tanto che il gregge finisce con il passarti il suo odore.

È emblematica, in questo senso, l’invocazione ricorrente della pace, cui si accompagna la denuncia dell’inutile sciagura della guerra. Siria, Ucraina e Terra Santa, ma non solo. Un’attenzione cresciuta di intensità negli ultimi anni, certamente frutto dell’empatia di papa Bergoglio, ma anche del moltipicarsi dei teatri di conflitto e del mutare delle caratteristiche della guerra: sempre meno “scontro di civiltà” (che aveva ulteriormente stimolato l’impegno per il dialogo interreligioso) e sempre più calcolo della geopolitica, ma anche crescente coinvolgimento delle popolazioni civili. Guerre sempre più violente, dove è via via più difficile distinguere la ragione tra i fronti contrapposti, ammesso che la ragione possa mai trovare spazio nella guerra.

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Qualcosa di simile è vero per la giustizia sociale e il contrasto alla povertà. Che siano “passioni” di papa Francesco oppure, piuttosto, che sia la logica dello scarto a caratterizzare, prepotentemente, il nostro tempo? In questo senso, persone detenute, migranti e senza dimora sono gli emblemi dell’emarginazione e dell’esclusione, non soltanto per gli aspetti inevitabilmente negativi delle rispettive condizioni, ma per quella pena e sofferenza aggiuntive che l’indifferenza globale, quando non il sadismo dei singoli e dei sistemi, aggiungono.

Ancora, accade così per numerosi altri temi dettati all’agenda di Francesco dal tempo presente: il crescente degrado ambientale e umano, cui contrapporre quell’ecologia integrale proposta nell’enciclica Laudato si’ (2015); le famiglie e i giovani da restituire alla propria identità, anche affettiva, come in Amoris laetitia (2016); gli anziani, categoria di sicura attualità in un “inverno demografico” sempre più rigido; una Chiesa che ha perduto parte della propria spinta propulsiva ed entusiasmo, vittima di molti “ismi” (immobilismi, rigidismi, clericalismi, lobbismi).

Una riflessione a sé merita il confronto con il diffuso senso di disperazione, che rende nulla affatto casuale il sistematico riferimento di Francesco alla gioia (già nella prima esortazione apostolica Evangelii gaudium, nel 2013), alla misericordia (cui è dedicato il giubileo straordinario del 2016), al perdono e alla speranza (con l’Anno Santo ordinario 2025). È significativo che l’ultimo atto pubblico di Francesco – la benedizione Urbi et Orbi – sia coinciso con un grande atto di misericordia spirituale, momento di perdono e indulgenza, a beneficio soprattutto dei più lontani e fragili. Anche a questo, Francesco non si è sottratto.

Condividere e illuminare. Arrivare, presi dalla fine del mondo, e andarsene dopo essersi lasciati prendere fino agli ultimi giorni, quando ciò che resta è poco più di un poncho. “Permesso, grazie, scusa” sono solo banalità? Alla luce di quanto detto finora, evidentemente no, se il vicario di Cristo si è sentito in dovere di ricordare le regole più semplici del vivere comune: permesso, anche di entrare nel mistero della morte di un uomo e di un papa; gratitudine, per ciò che Francesco è stato e ha provato ad essere, con virtù e limiti; perdono, per ciò che a volte siamo stati noi e per ciò che non abbiamo neppure provato ad essere.

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