Gaza, le caratteristiche di un genocidio. Il peso della memoria e quello della storia

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Accanto alla guerra sul campo, c’è un conflitto che si combatte fra le macerie delle parole. Ma che non potrà cambiare i fatti, né tanto meno la storia.

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La guerra condotta dal governo di Israele a Gaza mostra le «caratteristiche di un genocidio, dato l’elevato numero di vittime civili e le condizioni imposte ai palestinesi sul campo che li mettono intenzionalmente in pericolo di vita». A scriverlo in un rapporto diffuso lo scorso 14 novembre è il Comitato speciale delle Nazioni Unite per l’investigazione sulle pratiche israeliane che colpiscono i diritti umani del popolo palestinese e di altre popolazioni arabe che vivono nei territori occupati (UNSCIIP).

Si tratta del medesimo documento citato implicitamente da papa Francesco nel suo La speranza non delude mai. Pellegrini verso un mondo migliore (Piemme, 2024), anticipato in Italia da La Stampa e in Spagna da El País in vista del Giubileo. «A detta di alcuni esperti, ciò che sta accadendo a Gaza ha le caratteristiche di un genocidio. Bisognerebbe indagare con attenzione per determinare se s’inquadra nella definizione tecnica formulata da giuristi e organismi internazionali».

Genocidio

Come noto, è questa una scelta di termini da sempre urticante per lo Stato di Israele, che infatti non ha tardato a far giungere una replica. «Il 7 ottobre 2023 c’è stato un massacro genocida di cittadini israeliani e da allora Israele ha esercitato il proprio diritto di autodifesa contro i tentativi provenienti da sette diversi fronti di uccidere i suoi cittadini. Qualsiasi tentativo di chiamare questa autodifesa con qualsiasi altro nome significa isolare lo Stato ebraico», è stata la reazione ufficiale dell’Ambasciata d’Israele presso la Santa Sede, affidata anche a X. Per Francesco anche un piccolo terremoto personale, con la presa di distanze dell’amica scrittrice italiana-ungherese Edith Bruck, testimone della Shoah.

Se fino a pochi mesi fa l’uso del termine genocidio da parte del Santo Padre era ritenuto «irrealistico» dai vertici della Segreteria di Stato, oggi la Santa Sede non può sottrarsi da un confronto antico, entrato recentemente in una nuova fase. Ad un mese dalla strage del 7 ottobre 2023 per mano di miliziani di Hamas, quando già il numero di morti a Gaza cresceva in maniera esponenziale, la rivista statunitense Time si domandava: «Quello che sta succedendo a Gaza è un genocidio?».

Un quesito legittimo. Tornando alle radici del termine genocidio, nel 1944 l’avvocato ebreo polacco Raphael Lemkin cercò di descrivere con un neologismo le politiche naziste di sterminio sistematico come «l’insieme di azioni progettate e coordinate per la distruzione degli aspetti essenziali della vita di determinati gruppi etnici, allo scopo di annientare i gruppi stessi».

Nel 1951 le elaborazioni che seguirono agli orrori della seconda guerra mondiale confluirono nella Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio. Il merito di questo trattato, ratificato anche da Israele, è di definire nel dettaglio all’art. 2 «ciascuno degli atti […], commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale: (a) uccidere membri di un gruppo; (b) causare gravi danni fisici o mentali ai membri del gruppo; (c) sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita volte a provocarne la distruzione fisica totale o parziale; (d) imporre misure volte a impedire le nascite all’interno del gruppo; (e) trasferire forzatamente bambini del gruppo in un altro gruppo».

Difficile non riconoscervi diversi punti di contatto con la situazione mediorientale, sia ad opera di Hamas che del governo di Israele. Al di là delle definizioni legali, però, è innegabile che nel termine genocidio si uniscano due elementi fondanti della vita dell’uomo singolo e comunitario: la memoria e la storia. Rendendo ciò che potrebbe apparire chiaro decisamente più complesso.

Liliana Segre: il valore della memoria

«Nella drammatica situazione di Gaza non ricorre nessuno dei due caratteri tipici dei principali genocidi generalmente riconosciuti come tali – il Medz Yeghern degli armeni, l’Holodomor dei kulaki ucraini, la Shoah degli ebrei, il Porrajmos dei rom e sinti, la strage della borghesia cambogiana, lo sterminio dei tutsi in Ruanda – mentre sono piuttosto evidenti crimini di guerra e crimini contro l’umanità, commessi sia da Hamas e dalla Jihad, sia dall’esercito israeliano», scrive Liliana Segre in un intervento sul Corriere della Sera del 29 novembre. «I caratteri tipici dei genocidi sono essenzialmente due, uno è la pianificazione della eliminazione, almeno nelle intenzioni completa, dell’etnia o del gruppo sociale oggetto della campagna genocidaria, l’altro è l’assenza di un rapporto funzionale con una guerra».

Secondo la senatrice a vita, superstite dell’Olocausto e testimone attiva della Shoah, «l’abuso della parola genocidio dovrebbe essere evitato con estrema cura per più di una ragione. In primo luogo, solo coprendosi occhi e orecchie si può evitare di percepire il compiacimento, la libidine con cui troppi sembrano cogliere un’opportunità per sbattere in faccia agli ebrei l’accusa di fare ad altri quello che è stato fatto a loro». Inoltre, «l’accusa strumentale del genocidio proietta sull’intero stato demonizzazione ingiusta, ma anche controproducente per le prospettive di pace e convivenza».

Amos Goldberg: la lezione della storia

«Sì, è un genocidio», scrive nel maggio scorso Amos Goldberg su Sikha Mekomit, sito in lingua ebraica che dichiara di occuparsi di democrazia, pace, uguaglianza, giustizia sociale e lotta contro l’occupazione. «Sebbene sia così difficile e doloroso ammetterlo e nonostante tutti gli sforzi per pensarla diversamente, dopo sei mesi di guerra brutale non è più possibile sfuggire a questa conclusione. La storia ebraica sarà ormai macchiata del segno di Caino del “crimine dei crimini”, che non potrà più essere cancellato dalla sua fronte. In quanto tale resisterà alla prova del tempo», continua Goldberg, ebreo israeliano, professore di Storia dell’Olocausto al Dipartimento di storia ebraica dell’Università ebraica di Gerusalemme.

«Ci vorranno alcuni anni prima che il tribunale dell’Aja emetta il suo verdetto, ma non dovremmo guardare alla catastrofica realtà solo attraverso lenti legali», scrive ancora Goldberg. «Ciò che sta accadendo a Gaza è un genocidio perché livello e ritmo di uccisioni indiscriminate, distruzione, espulsioni di massa, sfollamenti, carestia, esecuzioni, cancellazione delle istituzioni culturali e religiose, disumanizzazione generalizzata dei palestinesi creano un quadro complessivo di genocidio, di un deliberato e consapevole annientamento dell’esistenza palestinese a Gaza. La Gaza palestinese come complesso geografico-politico-culturale-umano non esiste più. Il genocidio è l’annientamento deliberato di una collettività o di una parte di essa, non di tutti i suoi individui. Ed è ciò che sta accadendo a Gaza. Il risultato è senza dubbio un genocidio. Le numerose dichiarazioni di sterminio da parte di alti funzionari del governo israeliano e il tono generale di sterminio del discorso pubblico indicano che questa era anche l’intenzione».

In quanto alla legittima difesa avanzata dal governo di Israele a giustificazione delle proprie azioni a Gaza, il giudizio di Goldberg è netto e terribile. «Sebbene ogni caso di genocidio abbia un carattere diverso, in termini di portata dell’omicidio e delle sue caratteristiche, il denominatore comune della maggior parte di essi è che sono stati commessi per un autentico senso di legittima difesa. Dal punto di vista giuridico un evento non può essere allo stesso tempo di legittima difesa e di genocidio. Queste due categorie giuridiche si escludono a vicenda. Ma storicamente l’autodifesa non è in contrasto con il genocidio, ma di solito ne è uno dei fattori centrali, se non il principale». Una posizione, quella di Goldberg, ribadita recentemente in due interviste per il quotidiano francese Le Monde e per Jacobin, periodico della sinistra socialista statunitense. «È così che sarà considerata nel giudizio della storia per le generazioni a venire. Gli obiettivi militari sono quasi obiettivi incidentali mentre uccidono civili, e ogni palestinese a Gaza è un obiettivo da uccidere. Questa è la logica del genocidio».

Dare un nome alla morte

La combinazione di accelerazione e complessità conduce sempre più spesso a considerare il mondo in cui viviamo come volatile, incerto e ambiguo. Non stupisce che l’ossessione per le definizioni in tempo reale prevalga rispetto ad ogni sincero tentativo di instaurare occasioni di dialogo e proposte di soluzioni. Né può venire in nostro soccorso l’emotività, talvolta sopraffatta da un antisemitismo di ritorno.

A pesare, più dei termini, sono i morti: oltre 40mila tra i palestinesi in più di un anno di guerra, fra i quali diverse migliaia di bambini. Le responsabilità sono chiare, almeno stando al giudizio della Corte penale internazionale, che ha spiccato mandati di arresto per crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi a Gaza e in Israele a carico del premier israeliano Benyamin Netanyahu, dell’ex ministro della Difesa Yoav Gallant e di Mohammed Deif, comandante delle Brigate ʿIzz al-Dīn al-Qassām, braccio armato di Hamas, che Israele ritiene di aver ucciso in un raid a Gaza.

Il futuro ci chiama ad un giudizio, ma il presente al dovere di salvare vite. Perché, non solo in guerra, la velocità uccide.

Foto: Gaza, dicembre 2023 © UNICEF/UNI495569/ZAGOUT

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