Stiamo facendo davvero i conti con la nostra storia oppure solo con le statue di uomini già morti? Due domande sull’iconoclastia laica.
Mentre in Messico – mai tanto in inspiegabile sintonia con gli Stati Uniti come negli ultimi mesi, e non è detto che sia un buon segno – le statue di Juan de Oñate, conquistador e governatore spagnolo (ma nato nell’attuale Messico), si aggiungono agli indesiderabili del nostro tempo, vengono da porsi almeno due domande sull’onda di iconoclasmo laico che sta attraversando l’Occidente.
La prima: il tempo – la storia – sana davvero le ferite, come vorrebbe la saggezza popolare? E la seconda: quanto indietro nel tempo è possibile spingersi alla ricerca di nuovi “nemici” prima che ciò perda di senso o che la ribellione civile sfumi nel ridicolo? Per il momento sembra che la corsa al passato si sia arrestata alla fine del ‘400, con Cristoforo Colombo a fare da “indesiderabile” più datato – come è comprensibile, a fronte della coincidenza con la scoperta delle Americhe e della diffusione sostanzialmente americana del movimento di protesta.
Non si tratta di provocazioni o di semplici dettagli, ma del modo di intendere la storia – anche la storia della vita di ciascuno di noi. Se sarebbe ributtante vedere una statua celebrativa di Hitler, e per ragioni simili dovrebbe esserlo anche un monumento a Stalin, non lo è (più) un busto dedicato a Nerone, che pure sul piano dello sterminio di quanti riteneva una minaccia non fu da meno di entrambi: basti pensare alla sanguinosa persecuzione dei cristiani del 64 d.C., che tanto avrebbe colpito il giovane Raphael Lemkin, in seguito avvocato e giurista polacco “inventore” del termine genocidio.
Eppure nessuno, oggi, si sognerebbe di rimuovere le rappresentazioni artistiche, anche celebrative, di un imperatore romano violento e sessista, tanto dai musei quanto dai luoghi pubblici. Troppo antico per scaldare gli animi, si dirà. Non è così scontato: non più tardi di due anni fa, presso la città siriana di Afrin, non lontano da Aleppo, milizie filo-turche hanno abbattuto la statua di Kawa, un eroe mitologico curdo ricordato per aver sconfitto un re assiro e per essersi dato alle fiamme portando la primavera. Certamente un simbolo ben più di quanto lo sia mai stato Nerone, eppure non meno antico.
Per la verità, attacchi ai beni artistici conservati nei musei ci sono stati. Sono stati rievocati più volte in questi giorni. Era il febbraio 2015 quando alcuni miliziani dell’Isis, uomini e donne, assaltavano il museo di Mosul, in Siria, distruggendone importanti reperti, fra i quali diverse statue delle antiche civiltà mesopotamiche, soltanto alcune delle quali copie in gesso (gli originali sarebbero stati messi in salvo a Baghdad prima della guerra, ma l’ipotesi è ancora incerta). Le motivazioni del gesto erano allora religiose: secondo l’interpretazione dell’islam promossa dal Califfato, le statue avrebbero rappresentato una forma di idolatria. Peraltro, alcune di esse erano state in effetti create con quello scopo, in origine, come molta parte dell’arte antica, ma questo non muta il giudizio artistico di buona parte di quanti oggi si professano monoteisti.
Motivazioni religiose (o presunte tali) si accompagnano da sempre alla distruzione di statue e monumenti: le riferisce la Bibbia, le ricordano i libri di storia dell’arte a proposito dell’iconoclastia dell’VIII secolo e nel 2001 le hanno mostrate i telegiornali in occasione della distruzione dei Buddha di Bamyan per mano dei Talebani. In altri contesti, per lo più del civile e secolarizzato Occidente, sono invece le statue votive cristiane ad essere in pericolo: negli anni non si contano gli atti di vandalismo compiuti contro immagini di Cristo, della Vergine e dei santi, soprattutto in occasione di cortei e nei presepi pubblici allestiti per il Natale. Nel 2011 aveva fatto scalpore, ad esempio, la distruzione di una statua della Madonna di Lourdes per opera degli allora indignados, sottratta alla chiesa dei Santi Marcellino e Pietro a Roma.
Ma la riflessione ci porta troppo lontano: nell’attuale movimento di protesta quella religiosa non è mai emersa come una motivazione di peso. La contestazione laica si muove, invece, sul piano della lotta contro l’inciviltà – fuor di dubbio – del razzismo e della violenza. La verità, però, è che la storia è scritta anche con il sangue di epoche violente. Così come la presunta prosperità di ciò che siamo oggi ha un prezzo, saldato in passato con le vite di altri. E la storia che stiamo scrivendo nella nostra, di epoca, non fa eccezione. Crogiolarsi nel contrario sarebbe un’ipocrisia. È verosimile che quanti si stanno impegnando ad abbattere rappresentazioni del passato non vorrebbero cancellate dai libri di storia le colpe – reali o presunte – che valgono a quei personaggi un simile destino nel presente. Non foss’altro perché sono un monito, troppo spesso inascoltato, a non ripetere gli stessi errori.
Il Papa, in occasione della solennità del Corpus Domini, ha ricordato – forse non a caso, forse profeticamente – che attraverso la celebrazione dell’Eucaristia come comunità, come popolo, come famiglia il Signore «guarisce la nostra memoria ferita» e ci fa portatori di Dio, portatori di gioia. Quanto sarebbe efficace, infatti, un approccio alla storia che intendesse dimenticarne le ferite? Una “chirurgia estetica” del nostro passato, che volesse cancellarne le cicatrici, sarebbe quanto di più pericoloso per il nostro tempo. È proprio con i luoghi più bui della nostra memoria, infatti – al pari di quelli della nostra vita – che dobbiamo fare i conti per crescere, come persone e come civiltà. Anche quelle statue “sbagliate” fanno della storia una maestra, che non va zittita.
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