Lotta alle statue: confronto con la propria storia oppure lotta contro il passato per non affrontare il presente? Il senso dell’iconoclastia laica e di un piccione su una statua.
Ho sempre letto un senso profondo in un piccione – con corredo di relative espressioni naturali – posato sopra una statua. Umile, pacifica ed efficace forma di ribellione. Addirittura inconsapevole (e chissà se lo è davvero). Ma anche una delle più immediate e concrete rivisitazioni del celebre sic transit gloria mundi (“così passa la gloria del mondo”), fino al 1963 ricordato anche nella cerimonia di incoronazione dei pontefici.
Un richiamo sempre attuale alla natura transitoria della vita e degli onori terreni che nelle ultime settimane ha assunto la forma di un’ondata di iconoclastia – laica, tardiva e talvolta francamente ironica – contro la memoria pubblica di alcuni personaggi della storia. Va detto, anzitutto, che si tratta di figure da tempo oggetto di contrasti, più ideologici che storici, e profondamente diverse fra loro. Solo per citarne alcune fra le più celebri, si va da un capo di Stato britannico di pochi decenni fa (Winston Churchill), passando per generali e leader confederati della Guerra civile americana e un mercante-filantropo del Seicento, arricchitosi anche con il commercio degli schiavi (Edward Colston). E, ancora, un esploratore e conquistador (Juan Ponce de Léon), un presidente democratico degli Stati Confederati (Jefferson Davis), il fondatore degli scout accusato di simpatie verso il Nazismo (Robert Baden-Powell), un protagonista dell’imperialismo vittoriano nell’Africa del Sud giudicato da molti un precursore dell’apartheid (Cecil Rhodes), un uomo di spicco della Guerra civile inglese e persecutore di irlandesi (Oliver Cromwell), un primo ministro britannico liberale coinvolto nel traffico di schiavi (William Gladstone), un commerciante scozzese e proprietario di schiavi (Robert Milligan) e il generale simbolo delle forze Sudiste (Robert E. Lee). Anche in ordine sparso, ce n’è per tutti i gusti. Tranne, forse, per quello della giustizia, almeno per come la intendiamo oggi.
E l’elenco potrebbe proseguire pressoché all’infinito, perché a guardare indietro nella storia le pagine oscure non mancano di certo. Al pari dei possibili spunti di ripensamento – per non dire di revisionismo – in ogni Paese tanto quanto in ogni ambito. Storia politica? Chiedete alle statue di Marx, Lenin, Stalin e Saddam Hussein. Storia della Chiesa? C’è la statua di Henryk Jankowski, celebre cappellano del sindacato Solidarność e parroco della chiesa di Santa Brigida, recentemente accusato di pedofilia (ma difeso da alcuni suoi ex chierichetti), la cui statua è stata rimossa a Danzica, in Polonia, lo scorso anno.
In vena di storia d’Italia? Nessun problema: nel mirino ci sono le statue di Vittorio Emanuele II, “ricusato” a Torino, quella di Indro Montanelli, accusato a Milano di pedofilia e colonialismo in Eritrea, e soprattutto Cristoforo Colombo, le cui statue sono da anni oggetto di dissenso pressoché ovunque sull’altra sponda dell’Atlantico. Fra le contestazioni più famose, quella della presidente argentina Cristina Kirchner, che qualche anno fa sostenne la rimozione della statua di Cristóbal Colón che dal 1910 faceva bella mostra di sé di fronte alla Casa Rosada, sede della Presidenza della Repubblica a Buenos Aires (a suo tempo se ne era parlato anche su queste pagine).
Diversi – sorprendentemente diversi – sono anche i protagonisti di questa campagna di rimozione monumentale, con tutta la distanza che può separare i manifestanti del movimento Black Lives Matter, la portavoce della Camera statunitense Nancy Pelosi e un gruppo di giovani attivisti di Torino. Cosa li accomuna? C’è chi parla di sensibilità verso le sofferenze storiche delle minoranze, chi di political correctness e chi insinua una dose di opportunismo, anche politico.
Quel che è certo è che a misurare le intenzioni della storia con il metro del presente si sbaglia (quasi) sempre. Non è un caso che si affermi che sarà la storia a giudicare e non il contrario. Ad assolvere, addirittura, come ebbe a dire di sé Fidel Castro, del quale Cuba ha vietato monumenti e intitolazioni di strade. Molti degli uomini dei quali oggi si distruggono le statue non le avrebbero meritate fin dall’inizio, è un dato di fatto. O, almeno, lo è oggi. Non si tratta di relativismo, ma del semplice scorrere delle epoche. Meglio tardi che mai, quindi? Forse. Ci sarebbe da gioire se fossimo di fronte ad una società che finalmente ha deciso di liberarsi dei propri idoli. La sensazione, invece, è che si stia soltanto preparando a fabbricarne di nuovi.
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