Quando il Presidente Usa donò sé stesso al Papa

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Scegliere il regalo giusto, soprattutto quando è destinato al Papa, è un’arte. Che a qualcuno, talvolta, manca. Il caso Lyndon Johnson (e gli altri).

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«Non sarà Natale se cercheremo i bagliori luccicanti del mondo, se ci riempiremo di regali, pranzi e cene, ma non aiuteremo almeno un povero, che assomiglia a Dio», sottolineava papa Francesco nell’ultima udienza del 2018. Davvero “buono” è un Natale «ricco delle sorprese di Gesù. Potranno sembrare sorprese scomode, ma sono i gusti di Dio». Un bene ricordarsi di questo “gusto” con il Natale che ci si apre davanti, che per molti sarà diverso dai precedenti e per altri immerso in quel silenzio e in quella solitudine – talvolta scelti, talvolta subìti – che erano già propri dei Natali passati, forse soltanto accresciuti.

Un bene anche ricordare questo “gusto” a chi di gusto è privo, specie nei regali, che sono qualcosa di ben più profondo di un semplice pacchetto. I doni portati dai Magi al bambino Gesù «hanno un significato allegorico – ricorda Francesco nella Admirabile signum – l’oro onora la regalità di Gesù; l’incenso la sua divinità; la mirra la sua santa umanità che conoscerà la morte e la sepoltura».

E chissà quale conforto nell’allegoria deve aver cercato Paolo VI per dare un senso ad uno fra i regali più bizzarri mai ricevuti da un pontefice. Non soltanto per l’oggetto in sé, ma per la scarsa considerazione che questo dimostra del senso profondo del dono. È il 1967, la guerra del Vietnam infuria da oltre un decennio, il fronte di opposizione al conflitto cresce nel mondo e negli Stati Uniti e il presidente in carica, Lyndon B. Johnson, non solo si trova nella difficile condizione di prendere il posto di un gigante, sebbene non privo di ombre, come John Fitzgerald Kennedy, ma anche di portare il Paese fuori da una palude che sembra senza soluzione.

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Il viaggio che conduce il Presidente Usa prima in Australia e poi – inaspettatamente – in Thailandia, Vietnam, Pakistan e Italia ha anche questo scopo: cercare – o creare – una via di uscita. Strada che mancherà ancora per otto anni, fino al 1975. L’ultima tappa, quella italiana, porta Johnson ad incontrare il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio, rispettivamente Giuseppe Saragat e Aldo Moro. Ma anche, dopo un breve trasferimento in elicottero fino ai Giardini vaticani (fino ad atterrare sopra i Giardini vaticani, per l’esattezza), il Papa, Paolo VI.

A differenza di JFK, Johnson non è cattolico (appartiene alla Christian Church o Disciples of Christ, una denominazione cristiana protestante presente in Stati Uniti e Canada), ma è il 23 dicembre e l’occasione sembra quanto mai propizia per una visita a sorpresa al Papa. Per la verità, le condizioni di salute di Paolo VI, in convalescenza dopo un delicato intervento alla prostata, suggerirebbero tutt’altro (intervento sul quale era, però, stato mantenuto il riserbo, va detto a discolpa del Presidente Usa).

Sia come sia, è difficile cogliere di sorpresa il Vaticano. Paolo VI è ben preparato a sostenere le ragioni della pace e negli anni successivi il colloquio privato con Johnson verrà descritto come teso. La prossimità del Natale dà un diverso significato anche al tradizionale scambio di doni, che almeno per parte della Santa Sede avviene secondo copione. Paolo VI ha pronta per gli Stati Uniti – per tramite di Johnson – la riproduzione di un dipinto ad olio del XV secolo raffigurante una Natività.

Ma Johnson ha in serbo una sorpresa. In perfetto stile yankee, il Presidente sfodera uno dei sorrisi da showman per i quali è celebre e presenta al Papa una piccola figura umana, tutta testa. A prima vista potrebbe sembrare un bizzarro Gesù bambino in fasce, ma la realtà è ben diversa: si tratta del proprio busto in bronzo. Di Lyndon Baines Johnson, 36esimo presidente degli Stati Uniti, vivente, in carica e di fronte al Papa. La gratitudine di circostanza e la curiosità dei presenti non bastano a cancellare l’espressione evidentemente confusa di Paolo VI, immortalata per i posteri fra gli scatti ufficiali della visita, insieme al volto raggiante di LBJ.

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Neppure la speranza di un dono singolare, forse di cattivo gusto ma quantomeno unico, può salvare le apparenze. Tutt’altro: la riproduzione dell’immagine di se stesso è per Johnson un affare di produzione di massa, in centinaia di copie, alcune delle quali distribuite lungo l’intero viaggio, fin dall’Australia. Ancora oggi esemplari del busto di Johnson, fra gli oggetti kitsch più celebri di sempre, sono disseminati in diversi palazzi istituzionali – o, più, probabilmente, in qualche angolo dei loro magazzini – uguali a se stessi, in gesso o in bronzo.

Beninteso: ai regali bizzarri i pontefici sono assuefatti da sempre. Nella storia se ne annoverano a centinaia, anche nelle occasioni più ufficiali. In alcuni casi si tratta di opere, per quanto singolari, dell’ingegno umano. In altri, di doni di grande valore, preziosi per le aste di beneficienza dei papi. Ma uova bulgare giganti, motociclette cult e auto sportive sono poca cosa in confronto alla collezione di musica country donata da George W. Bush a Benedetto XVI o al servizio di piatti ricevuto dallo stesso Ratzinger da Carlo d’Inghilterra. I filmati dello scambio mostrano come il Principe del Galles, al momento della consegna, sia il primo a schermirsi, mettendo in dubbio l’utilità del regalo. Tardi.

Alcuni doni si rivelano addirittura controproducenti, finendo con il causare problemi a chi li riceve. È il caso di uno degli omaggi più discussi ricevuti da papa Francesco: il tristemente celebre crocifisso con falce e martello regalato al Pontefice dal presidente boliviano Evo Morales. È l’8 luglio 2015 e anche in questo caso le foto di rito immortalano una delle espressioni più enigmatiche dell’intero pontificato di Francesco. Non sfugge il chiaro simbolo comunista, naturalmente, ma neppure il riferimento a padre Luis Espinal, gesuita vicino alla Teologia della Liberazione.

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Papa Francesco, Evo Morales, regalo crocifisso falce e martello

Nel giro di poche ore il Pontefice è vittima di una salva di critiche, tanto da dover chiarire, sul volo di ritorno da Asunción a Roma, di considerare l’opera «un’espressione di arte di protesta» e non un’offesa. In quelle ore, da queste stesse pagine, proponevo una chiave di lettura amaramente realista di quel crocifisso, presumibilmente ben lontana dalle intenzioni di Morales, come di un simbolo delle persecuzioni provenute al Cristianesimo dalle ideologie di matrice comunista.

«Anche la Chiesa ha un suo volante difficile», replica scherzando Benedetto XVI a Luca Cordero di Montezemolo. È il dicembre 2005, e il Presidente della Ferrari, ricevuto in udienza, sta spiegando al Papa le difficoltà dei piloti durante le gare, portando in dono un volante della F2004 di Michael Schumacher con la dedica “Il volante della F1 Campione del mondo a Sua Santità Benedetto XVI, pilota della cristianità”. Si tratta di una tra le reazioni più ironiche di sempre di un pontefice di fronte ad un regalo inatteso, a sottolineare come il timone della barca di Pietro sia tutt’altro che semplice da manovrare. E lo sa bene anche il più recente pilota della “scuderia”, Francesco.

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