Segue la trascrizione dell’intervista realizzatami da Maria Grazia Gismondi per Radio SBS di Melbourne a proposito del mio libro, La follia del partire, la follia del restare. Il disagio mentale nell’emigrazione italiana in Australia alla fine dell’Ottocento. Disponibile anche l’audio dell’intervista.
Il problema della malattia mentale è molto legato all’emigrazione, laddove c’è un qualche tipo di sradicamento, che può essere culturale, familiare, di ambiente, di orizzonti di vita geografici, linguistici, religiosi. C’era ieri come c’è oggi, purtroppo, e del problema della malattia mentale, in generale, si parla molto poco. C’è ancora questo stigma sociale che impedisce di parlare della follia, come c’era all’epoca. Si parla molto poco soprattutto della malattia mentale connessa al fenomeno migratorio, che colpisce tuttora sia gli immigrati stranieri – pensiamo, ad esempio, ai tanti che si dirigono ancora oggi verso l’Europa, verso l’Italia – sia gli italiani che ancora oggi scelgono di andare all’estero. Per gli italiani nell’Ottocento fu un problema grave. Purtroppo è difficile fare delle statistiche. Non si sa neppure bene quanti italiani si diressero in Australia e ancora meno si sa quanti furono quelli che scomparirono in queste strutture, che all’epoca venivano chiamate “asili dei lunatici” e che sono, sostanzialmente, i manicomi.
Come ha fatto a realizzare questa ricerca, su un aspetto molto poco noto e su cui non credo sia riuscito a trovare tantissima documentazione?
L’Australia è molto avanti per quanto riguarda la classificazione degli archivi, soprattutto per quanto riguarda gli archivi delle [migrazioni]. Ho realizzato questa ricerca partendo da documenti d’archivio – anche australiani, molti dei quali inediti – per cui [la ricerca] è basata sulle orme, sulle tracce di questi migranti: sulle lettere, soprattutto degli archivi italiani, le lettere che gli emigranti inviavano a casa e che in molti casi permettono di tracciarne il percorso e la vita in Australia; e – questi erano in gran parte inediti prima d’ora – sui documenti d’archivio degli asili dei lunatici australiani, aperti agli studiosi. Cercando fra i nomi degli italiani in questi archivi, cercando le loro storie, incrociando i dati, [è possibile] scrivere le biografie di questi italiani, ricostruirne il percorso di vita, spesso triste.
Quando si parla di migrazione e di emigrati italiani, si parla molto di nostalgia. Lei identifica un po’ nella nostalgia anche la depressione?
Sì. Molte delle motivazioni che accompagnano gli internamenti nei manicomi per gli italiani – ma in realtà è un problema che, si nota, colpiva un po’ tutte le etnie, per esempio era molto diffuso fra i cinesi – è [riferibile alla] malancholia, una definizione ottocentesca del “mal di vivere”, alla quale [nel libro] dedico un capitolo specifico, con alcune storie. È un peggioramento, una forma grave – se così vogliamo dire – patologica, psichiatrica, della nostalgia. Una tristezza, che diventa mancanza, solitudine, lontananza: spesso era complicato riuscire a mantenere i legami con la famiglia, rimasta a casa; spesso le lettere impiegavano mesi per giungere dall’Australia all’Italia e viceversa; c’erano incomprensioni, mancanze, si perdevano di vista i contatti con i familiari rimasti a casa e con quelli emigrati; c’era questo forte senso di abbandono, anche rispetto ad una vita in Australia che non sempre corrispondeva ai sogni e alle aspettative che l’emigrante aveva. Si cadeva in questo abisso di tristezza, di mancanza, di nostalgia, di solitudine, che poteva diventare grave sino alla follia, a questa chiusura, non ultimo anche per una questione linguistica: [per gli emigranti] era molto difficile riuscire a comunicare – in gran parte non parlavano inglese – il proprio stato d’animo, farsi aiutare e ottenere un aiuto che andasse al di là di quello sanitario di base, che pure talvolta mancava, ma che rimaneva in molti casi freddo, distaccato. Per cui a mancare era un aspetto affettivo, familiare, di vicinanza. Si poteva giungere quindi alla follia, alla chiusura totale, al ripiegamento su sé stessi, fino poi ad essere internati, in molti casi non necessariamente per una malattia psichica: non necessariamente pazzi, semplicemente tristi, molto tristi, fino quasi alla follia.
Quindi lei quante lettere di migranti si è letto?
Tantissime, soprattutto in archivi italiani, che conservano la memoria del fenomeno migratorio. È [stato] un piacere. Sono lettere – molte delle quali riporto [nel libro], alcune integralmente, altre con ampie citazioni, sempre letterali, con i loro errori grammaticali e con questo linguaggio molto semplice, orale, di emigranti non abituati a scrivere, [bensì legati] ad una cultura e ad una comunicazione orali, però molto efficaci – lettere importanti, belle, che mantengono la memoria triste e gioiosa [delle migrazioni]: non dobbiamo dimenticare che ci fu anche un’emigrazione italiana in Australia di successo, come dimostra ancora oggi la vivace comunità italiana in Australia.
Immagino che lei abbia anche ricostruito la storia di alcuni di questi migranti attraverso le lettere. Ce ne vuole raccontare una?
Ci storie diverse. Innanzitutto io ritengo che fare storia significhi, in gran parte, occuparsi di persone, per cui tendo a guardare alla storia certamente anche nell’ottica dei grandi movimenti, dei grandi flussi – e nel testo non mancano riferimenti statistici e storici – ma poi, sopratutto in un argomento come questo, venire alle biografie, alla vita vera, vissuta, reale, è secondo me fondamentale. Sono riuscito a ricostruire alcune di queste vite: ci sono donne che raggiungevano il marito in Australia e che poi, per una serie di ragioni, in alcuni casi poco chiare, vengono a trovarsi in una situazione di tristezza, forse una gravidanza difficile, forse la perdita in tenera età del bambino, la solitudine per il marito lontano e la mancanza di contatti con i familiari a casa. Ricordo la storia di una donna originaria di Tirano, in Valtellina, una zona alpina da cui provennero molti degli emigranti che alla metà dell’Ottocento si diressero in Australia – i pionieri italiani in Australia [furono] soprattutto montanari – e questa donna viene cercata dal padre, che è rimasto in Italia e non ha più contatti con la figlia, che pure era [in Australia] con il marito, ha avuto un figlio e [infine] si troverà a passare da un manicomio all’altro tutta la sua esistenza. Questa è solo una delle tante storie che vengono raccontate nel libro: ci sono figli che perdono la madre in tenera età perché la madre viene internata, ci sono mariti sottratti all’affetto dei figli e della moglie, ci sono figli che vengono cercati dai padri, oppure genitori che vengono cercati dai figli rimasti in Italia o addirittura emigrati in altre aree, come l’America, e cercano padri emigrati in Australia e viceversa.
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