Quella in Congo è una guerra dimenticata? Diciamo piuttosto una guerra ignorata, perché il silenzio è una scelta. Fra interessi internazionali e il coraggio della testimonianza.
Si parla talvolta di guerre dimenticate. Meglio sarebbe definirle guerre ignorate, perché il silenzio è frutto di una scelta deliberata. È il caso della guerra in corso nella Repubblica Democratica del Congo, ennesimo frammento di quel conflitto mondiale che sfigura l’intero pianeta.
Si sarebbe tentati di derubricare quella del Congo come l’ennesima “guerra civile africana”. Normalizzazione che spaventa. Come spesso accade, invece, l’aggressione di diversi gruppi paramilitari, fra i quali M23 sostenuto dal governo del vicino Ruanda, svela uno scenario ben più complesso e realmente mondiale. Di nuovo, oggetto del contendere sono il coltan e le riserve di terre rare che il Congo custodisce, essenziali per l’industria tecnologica, nella produzione di smartphone e di altri dispositivi elettronici, anche bellici. Guerre per fare altre guerre. Per fare altri soldi.
«Stiamo vivendo una via crucis, giorno dopo giorno». Raggiungo don Joseph (il nome è di fantasia, la prudenza di chi scrive che prevale sul coraggio di chi vorrebbe esporsi nonostante i rischi) mentre prova a trovare una soluzione per i problemi di due bambini orfani in grande difficoltà di salute. «Dobbiamo continuare a denunciare il male e ad annunciare la verità e la speranza, anche se è pericoloso. Ma che importa la sicurezza, se il mio bellissimo Paese è malato e il mio popolo è sotto la schiavitù? Bisogna che ci siano tra di noi coloro che alzano la voce, qualsiasi cosa accada. Con la coscienza di aver fatto ciò che devo fare come servo di Dio e come sacerdote».
Don Joseph, qual è attualmente la situazione nella Repubblica Democratica del Congo?
Non c’è la pace e non c’è la guerra, ma direi più una guerra a bassa intensità. Sono in corso trattative diplomatiche tra il governo congolese e i rebelli. Il cosiddetto processo di Nairobi prevedeva la disattivazione dei 266 gruppi ribelli attivi in Congo, tra i quali 14 gruppi di Paesi stranieri: quelli stranieri sarebbero tornati al proprio Paese di origine, mentre i gruppi concongolesi sarebbero stati integrati nell’esercito nazionale. Dopo questo è venuto un altro tentativo, che chiedeva ai capi di Stato del Ruanda e del Congo di incontrarsi per valutare la possibilità di un cessate il fuoco e di trovare una soluzione pacifica. Il giorno dopo l’incontro fra i due presidenti a Doha, in Qatar, i rebelli hanno conquistato un’altra città, Walikale, e hanno continuato sulla strada verso Kisangani. Kisangani è l’ultima città: quando Kisangani cadrà, allora la capitale Kinshasa sarà nelle mani dei ribelli. Le trattative diplomatiche proseguono, ma il governo è in una posizione di grande debolezza, perché non ha più un esercito in grado di combattere, e quindi chi ha occupato i territori, anche Stati esteri, ha argomenti per impore il proprio schema su di noi.
Che origini ha questo conflitto?
Per capire ciò che succede in Congo servono parametri internazionali, parametri regionali e parametri nazionali e locali. A livello internazionale, tutto è iniziato con la “Pax Americana” portata avanti da Bill Clinton come strategia di conquista delle materie prime dell’Africa e dell’Asia. Con questo piano si voleva ridisegnare il mondo, senza più Paesi troppo vasti, come il Congo, ma piccole repubblichette più semplici da dominare e sfruttare. Mobutu e altri politici o dittatori sono stati sostituiti con altri leader, sottomessi al piano americano. Ciò che succede in Congo è deciso a Washington, alla Casa Bianca: senza capire questa dimensione non si può capire la causa del conflitto in Congo. Vediamo che l’esercito ruandese sta attaccando il Congo, ma lo fa per procura, perché dietro ci sono gli Stati Uniti e l’Unione europea, che danno armi, soldi per comprare armi e munizioni per continuare la guerra. In controparte, riescono a comprare materie prime a un prezzo molto basso.
Che ruolo gioca il continente africano?
A livello regionale, tutti i Paesi vicini al Congo – Ruanda, Uganda, Sudan del Sud, Angola – collaborano al piano americano, quindi non possiamo contare su di loro. Naturalmente, questo caos, questo imbroglio, non sarebbe possibile se gli avvoltoi delle aziende internazionali e delle potenze regionali non avessero dei complici tra i dirigenti congolesi. Con la confusione politica ed economica che regna in Congo, non è possibile controllare chi fa cosa e tutto è lecito: c’è chi, in questo disordine, riesce a fare affari per milioni di euro. Ma per le proprie tasche, non per il bene pubblico.
La sensazione è che la Repubblica Democratica del Congo sia un caso emblematico del nuovo colonialismo dei nostri giorni: sottrazione di risorse naturali, schiavitù, complicità nelle violenze. È così?
È vero. Addirittura, il colonialismo originale era più dolce di questa nuova fase di neocolonialismo. C’è un capitalismo selvaggio, capace di distruggere ogni cosa: non soltanto le foreste, non soltanto le savane, ma anche la vita umana; tutto per accumulare milioni di dollari. È un capitalismo spietato, che noi subiamo giorno dopo giorno in Congo e in tanti Paesi in cui regna la guerra. Io sono nato dopo l’indipendenza, ma i miei genitori, che hanno conosciuto il colonialismo, dicono che è peggio ciò che stiamo vivendo oggi: barbarie senza regole, senza fede, senza pietà. Il Congo ha già perso più di 10 milioni di vite e nessuno ne parla, perché i potenti impongono un blackout, un’omertà sulla sofferenza di un popolo intero, per salvaguardare i propri interessi.
Perché i media internazionali non si occupano di questo conflitto?
Purtroppo le grandi agenzie del giornalismo e dei mezzi di comunicazione, in Europa e negli Stati Uniti, sono state comprate dalle potenze economiche, che impongono regole editoriali su ciò che può essere detto o non detto. E della guerra in Congo, iniziata nel 1997 e finanziata dalle stesse potenze, è vietato parlare. Domandiamoci: com’è possibile, nel mondo della comunicazione in cui viviamo oggi, che quando c’è un piccolo evento in Asia, in Africa, il mondo intero lo sa, mentre del conflitto in Congo, che ha già ucciso più di 10 milioni di persone, nessuno parla? Quando il mondo si accorgerà davvero di ciò che sta accadendo sarà troppo tardi, perché il male sarà già stato fatto. Sarà una vergogna per l’umanità.
C’è una strategia per uscire da questa crisi?
Nessuna forza esterna può salvare un popolo, se non decide di liberarsi dalla schiavitù in cui è stato messo. Il primo passo è una coscienza patriottica e nazionale, di ogni cittadino congolese e del popolo intero, per riconquistare la libertà e la pace che mancano da più di 25 anni. Il secondo passo è che il popolo controlli i propri dirigenti e chieda loro di rendere conto del proprio operato: capita, infatti, che si rendano complici del sistema internazionale di sfruttamento del popolo congolese. Di fatto, alcuni dirigenti sono nel campo dei nemici, non nel campo del proprio popolo, quindi sempre nasceranno irregolarità e violenza. Fin da subito, l’importante è diffondere questa brutta notizia, la brutta notizia di ciò che sta accadendo in Congo. Si deve parlare senza vergogna di ciò che succede, senza paura, parlare di milioni di persone massacrate nel silenzio dei media. Quando il mondo intero alzerà la voce per denunciare ciò che succede in Congo, forse allora le potenze del mondo avranno paura di continuare a fare ciò che stanno facendo. Quando avremo fatto questo, vedremo già qualche frutto della pace che stiamo cercando.
© Vuoi riprodurre integralmente un articolo? Scrivimi.
Sostieni Caffestoria.it
