Soltanto le elezioni negli Stati Uniti, con il relativo seguito di opposte tifoserie, hanno ottenuto ciò che in questi mesi era sembrato impossibile: scalzare dalle aperture di quotidiani e telegiornali nazionali la pandemia di Covid-19. Non un vaccino, quanto piuttosto un temporaneo palliativo, dotato però della forza di un vizio storico dell’Italia: l’esterofilia.
«Capire che come vanno le cose negli Stati Uniti – ha sottolineato Massimo Cacciari in una recente intervista – ha un’influenza enorme sull’Europa e anche su di noi mi pare sacrosanto». Diverso, però, è «fare il tifo, fare polemica». È qui che scatta nell’italiano quell’esagerata – e, diciamolo, immotivata in molti casi – passione per l’estero, che non muove tanto dal razionale riconoscimento delle virtù di un Paese straniero (sempre gli stessi, per giunta), quanto piuttosto da un viscerale – e, diciamolo, immotivato sempre – disprezzo della propria nazione e, in fondo, di sé. Nei giardini oltreconfine l’erba è più verde, le politiche più giuste, il coronavirus meno aggressivo e si può finalmente proclamare che l’Italia fa schifo.
Beninteso: il vizio, se di vizio si può parlare, non appartiene soltanto al cosiddetto italiano medio, sensibile al fascino delle mode e della superficialità, magistralmente interpretato da Alberto Sordi. Di “americani a Roma” da caricatura (così come di sedicenti tedeschi, russi, australiani, ma pochi dall’Asia e ancora meno dal continente africano) se ne trovano tanto per la strada quanto nei salotti della finanza, nelle sale della politica e nelle aule degli atenei. E qualche volta anche nelle navate della Chiesa. Un tratto della storia d’Italia, fra i più duri a morire, che da secoli la spinge a cercare oltre i monti e il mare la soluzione ai propri problemi (o un appoggio ai propri interessi): che sia un vaccino, una stretta di mano o l’esercito del Re di Francia.
È stata un caso esemplare – già dimenticato – l’astensione degli eurodeputati leghisti sulle sanzioni economiche contro il presidente Alexander Lukashenko per le violenze perpetrate nei giorni successivi alla sua contestata rielezione (al contrario della posizione adottata da Forza Italia, Fratelli d’Italia, Pd e M5S che, invece, hanno scelto il fronte del sì alle sanzioni alla Bielorussia). Certo, l’imbarazzo è generalizzato e comune a diverse forze politiche e Stati europei. Il cosiddetto Occidente è tanto debole sul piano politico, economico e sociale da non potersi permettere di fare la voce grossa con Russia, Cina e Turchia, per non parlare degli Stati Uniti, e delle relative aree di interesse. Ma la posizione della Lega è quanto meno sorprendente per un partito che vorrebbe fare della presunta difesa del cattolicesimo un proprio tratto identitario.
Lukashenko, infatti, si distingue da tempo proprio per l’opposizione alla Chiesa cattolica nel proprio Paese. Ancora nei giorni scorsi, il vescovo ausiliare di Minsk-Mahilëŭ, mons. Yury Kasabutski, ha accusato Lukashenko di seminare «insulti e calunnie» sulla Chiesa cattolica, tacciata di voler «distruggere il Paese», motivando così l’intenzione di istituire un blocco sul clero straniero e l’appoggio ad una Chiesa ortodossa nazionalista e filo-governativa, sebbene molti preti ortodossi si siano schierati apertamente con i manifestanti. «La Chiesa cattolica si oppone alla violenza, al bullismo e alla tortura. Prega soprattutto per i prigionieri politici e si oppone alla repressione e alla persecuzione, alle violazioni dei diritti umani, alle umiliazioni, ai licenziamenti e alle espulsioni per opinioni dissenzienti», ha spiegato mons. Kasabutski. «Tutto questo è visto come qualcosa di brutto nel nostro Paese oggi. Quindi è necessario sputare e gettare fango sulla Chiesa cattolica, intimidendola e annunciando il prossimo passo nella sua persecuzione. Questo è un gioco politico e niente più».
L’episodio, naturalmente, si inserisce nel solco della vicenda che ha visto suo malgrado come protagonista mons. Tadeusz Kondrusiewicz, 74enne arcivescovo metropolita di Minsk-Mahilëŭ e presidente della Conferenza Episcopale della Bielorussia, al quale il 31 agosto scorso le autorità bielorusse hanno impedito il rientro nel Paese dopo un viaggio nella vicina Polonia, nonostante il prelato sia cittadino bielorusso. Con tutta evidenza, una punizione per avere criticato il regime e stigmatizzato il rischio di una guerra civile in seguito alla crisi politica della nazione. Una posizione complessa, quella di mons. Kondrusiewicz, tutt’ora in esilio in Polonia, resa ancora più singolare dal recente incontro fra Lukashenko e il nuovo nunzio apostolico, mons. Ante Jozic, ritratto a bella posta in un brindisi con il Presidente. Immagini alle quali è stata data grande visibilità in Bielorussia, e che hanno fatto storcere il naso a più di un cattolico nel Paese, finendo con il rievocare atmosfere da Ostpolitik in stile cinese.
L’attenzione mediatica alla Bielorussia, però, attualmente è minima, complice il prepotente ingresso sulla scena di altre urgenze a livello internazionale, ma questo non significa che nel Paese la crisi sociale e politica sia superata. E se per alcuni il clima è incredibilmente più mite a Est, per altri nel bel giardino oltreconfine vive ora Joe Biden, come ieri Donald Trump. Nuove speranze sono tornate a splendere per alcuni, e a tramontate per altri. Sempre dall’estero, si intende. Anche questo, a suo modo, è un vaccino, se non altro contro la routine e l’assunzione delle proprie responsabilità. Nel rose garden della Casa Bianca saranno tutte rose e fiori? Staremo a vedere.
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