Il dibattito su religione e politica? Ci sono More e Schuman. Ma anche Biden e Johnson. Perché quando il Cristianesimo incontra la politica gli esiti possono essere molto diversi. Come per tutti.
Ricorreva ieri la memoria di san Thomas More, umanista e politico cattolico inglese del XV e XVI secolo. La sua storia è tanto celebre da rendere superflua qualsiasi ricapitolazione: consigliere e segretario di Enrico VIII, in seguito addirittura cancelliere, il suo rifiuto di riconoscere il sovrano come capo della Chiesa in Inghilterra (a giustificazione del divorzio di Enrico VIII) e di disconoscere il primato del Papa interruppe tragicamente la sua carriera politica e lo condusse alla pena capitale con l’accusa di tradimento. La Chiesa cattolica lo venera come santo dal 1935, insieme al card. John Fisher, vescovo di Rochester, decapitato quindici giorni prima di More. Dal 2000, per volontà di Giovanni Paolo II, san Thomas More è patrono degli statisti e dei politici. Anche la Chiesa anglicana, dal 1980, lo commemora come martire della riforma protestante.
Politici d’altri tempi? Nulla affatto. La notizia che papa Francesco ha dichiarato venerabile lo statista francese Robert Schuman ha dato una scossa all’immagine predominante della politica (e, sperarlo non costa, anche uno scossone agli uomini e donne che se ne occupano). Schuman, come è stato più volte ricordato negli ultimi giorni, è l’acclamato primo presidente del Parlamento europeo ed è annoverato fra i principali promotori del processo di integrazione comunitaria in Europa, insieme al connazionale Jean Monnet, al nostro – nel senso più profondo – Alcide De Gasperi e al tedesco Konrad Adenauer.
Già il 10 maggio di un anno fa papa Francesco aveva, in certo modo, anticipato l’importante passo su Schuman. Ricorreva allora il 70° anniversario della Dichiarazione Schuman, del 9 maggio 1950. «Essa ha ispirato – ricordava il Papa – il processo di integrazione europea, consentendo la riconciliazione dei popoli del continente, dopo la Seconda Guerra Mondiale, e il lungo periodo di stabilità e di pace di cui beneficiamo oggi. Lo spirito della Dichiarazione Schuman non manchi di ispirare quanti hanno responsabilità nell’Unione Europea, chiamati ad affrontare in spirito di concordia e di collaborazione le conseguenze sociali ed economiche provocate dalla pandemia». Un sogno minacciato oggi da una finanza che sembra prevalere sulla giustizia e sugli autentici diritti dell’uomo e dall’incapacità – ancora – di riconoscersi famiglia sotto il medesimo tetto di una casa comune. «Un’Europa stanca e invecchiata, non fertile e vitale, dove i grandi ideali che hanno ispirato l’Europa sembrano aver perso forza attrattiva», come ebbe a dire in altra occasione papa Francesco.
L’attribuzione a Schuman del titolo di “venerabile”, primo passo, potenzialmente, verso la beatificazione e la canonizzazione, non equivale ovviamente ad un’onorificenza per meriti politici. Non nel senso comunemente attribuito a questi, almeno. Di per sé, ricerca della pace, armonizzazione delle economie e spirito di solidarietà sovranazionale non costituiscono motivi di santità. Sono le ragioni che giustificano tali principi ad esserlo. «Nel 1919 iniziò la carriera politica, che assunse come missione e impegno di apostolato», è scritto a proposito di Schuman nel Decreto promulgato dalla Congregazione per le cause dei santi. Naturale prosecuzione di una vita che lo vede sin da giovane «educato ai valori cristiani, alla pratica delle virtù e della preghiera, alla devozione mariana e alla partecipazione quotidiana all’Eucaristia», così come attivo nell’associazionismo e nella solidarietà, specie verso l’infanzia abbandonata a sé stessa, facile preda della criminalità. E poi ci sono gli anni dolorosi: quelli della prigionia, per mano della Gestapo, quelli della clandestinità e quelli, infine, della malattia, una grave forma di sclerosi celebrale, dal 1959.
Con tutto ciò, Robert Schuman «visse la virtù della fede come una dimensione totalizzante», si legge nel Decreto. Aggettivo interessante, e giustificato. A monte, infatti, per Schuman «la scelta di impegnarsi in ambito politico fu considerata come obbedienza alla volontà di Dio. La fede nutrì e sostenne il suo impegno a lavorare per un’Europa unita e riconciliata»; durante l’intera carriera politica, poi, come «uomo di governo al servizio di uno Stato laico, Schuman rispettava pienamente la laicità dello Stato, ma non acconsentì mai ad agire contro coscienza, formata all’obbedienza dei comandamenti di Dio e delle leggi della Chiesa». È forse questo il tratto più caratterizzante dell’agire politico di Schuman, così come di quello di Thomas More.
Una ventata di aria fresca, per la politica e per la Chiesa, mentre sono ben altre le discussioni che hanno per protagonisti alcuni rappresentanti della politica contemporanea. Colpevoli o vittime? Destino dei viventi, forse, più facili ad essere trascinati – o a trascinarsi – lungo le sponde melmose della polemica. Accade con Joe Biden, qualcuno che il Washington Post ha definito «un presidente molto cattolico che sostiene il diritto all’aborto», curiosa antinomia, di cui nelle ultime settimane si parla soprattutto per il rischio che venga escluso dall’Eucaristia a causa della manifesta incongruenza con alcuni degli insegnamenti della Chiesa, non solo in tema di aborto. Questione che, nel 2003-2004, si era già posta con il candidato alla presidenza John Kerry, poi sconfitto. Accade anche con il primo ministro britannico Boris “BoJo” Johnson, protagonista di discusse terze nozze in rito cattolico che, non fosse per l’importanza intrinseca del tema, sarebbero da derubricare alle pagine di gossip. Meschinità? Che cattiveria, sarebbe, definirla tale. Che l’utopia ci salvi.
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