«No ghe xè…». Quando il Papa parla in dialetto

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Il dialetto: simbolo del legame con la terra di origine e la propria famiglia. Ma anche strumento di ironia e arma contro lo spionaggio. I Papi insegnano.

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Fra i momenti più suggestivi del recente viaggio apostolico di Francesco in Thailandia c’è sicuramente l’appello «a cercare con coraggio i modi per confessare la fede “in dialetto”, alla maniera in cui una madre canta la ninna nanna al suo bambino», e «con tale fiducia darle volto e carne thailandese, che è molto di più che fare delle traduzioni». L’auspicio di Francesco non è una novità, tanto che, oltre a rispondere perfettamente al modello gesuita dell’inculturazione, lo stesso Pontefice in passato vi aveva già fatto riferimento in diverse occasioni. Era il 13 gennaio scorso, ad esempio, quando Francesco, nel tradizionale battesimo dei neonati nella Cappella Sistina, ricordava ai genitori che «la fede sempre va trasmessa “in dialetto”: il dialetto della famiglia, il dialetto della casa, nel clima della casa». E ancora prima, il 5 maggio 2018, in visita alla parrocchia romana di Tor de’ Schiavi, Francesco sottolineava che «i grandi valori della vita – la fede – si trasmettono solo “in dialetto”, cioè nel linguaggio della famiglia».

Ma, fuor di teologia, qual è il rapporto dei pontefici con il dialetto propriamente inteso? Come c’era da aspettarsi, è l’Italia a dare i riscontri più curiosi, sebbene non manchino inflessioni popolari anche Oltralpe e originali casi di “contaminazione”.

Un prevedibile primo posto spetta al vulcanico Pio X, il trevigiano Giuseppe Melchiorre Sarto. Fu il primo pontefice della storia contemporanea a provenire dal ceto contadino e con una formazione essenzialmente pastorale. Tra i molti esempi di inflessioni dialettali, la più celebre è forse la reazione di Pio X alle sanzioni ecclesiastiche previste per chi avesse praticato il tango: dopo averne visto un’esibizione disse, in dialetto, che preferiva la furlana, una danza tradizionale friulana, ma che non vedeva quali peccati vi fossero in quel ballo argentino. Ma non è questo l’unico caso. Anche la passione di Pio X per lo sport, infatti, gli suscitava memorie nella lingua dell’infanzia. L’interessante Pio X, le Olimpiadi e lo sport (A. Stelitano – Q. Bortolato – A. M. Dieguez, San Liberale, Treviso, 2012) narra, ad esempio, che la decisione del Papa di aprire gli spazi del Vaticano ad atleti e ginnasti produsse un piccolo terremoto negli ambienti azzimati della Santa Sede, tanto che un cardinale si decise ad affrontare direttamente l’argomento con il pontefice: «Ma in questo modo dove andiamo a finire, Santità?», avrebbe domandato il porporato. «Vorlo che ghe lo diga? In Paradiso!», gli rispose, in dialetto veneto, Pio X. Anche in vicende più delicate, comunque, papa Sarto non si faceva scrupolo di utilizzare il dialetto. È il 1908 e Pio X, alla ricerca di un nuovo predicatore apostolico, avvia una curiosa corrispondenza con il definitore generale dei Cappuccini, padre Serafino da Udine: «No ghe xè tra i Padri della vostra Provinsia qualcun che el podaria darghe sto agiuto al Padre Generale?». Tra i nomi proposti da padre Serafino, Pio X scelse padre Luca Pasetto da Padova, futuro segretario della Sacra Congregazione dei Religiosi e Assistente al Soglio Pontificio. Un’ultima notazione: dal punto di vista linguistico, il dialetto di Riese, paese natale di Sarto, è una singolare – e sempre più rara – variante della lingua veneta, diffusa unicamente nell’area del comune e ridotta oggi a poche centinaia di anziani ancora in grado di parlarla.

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Una quindicina di anni dopo, trascorso il pontificato di Benedetto XV senza escursioni linguistiche degne di nota e con la guerra mondiale a preoccupare ben più della lingua, Pio XI, al secolo il brianzolo Achille Ratti, avrebbe donato ai posteri preziose memorie dialettali. A conferma del legame affettivo con la lingua familiare, infatti, vale la pena ricordare il ritrovamento fra le carte personali di Pio XI, in seguito al riordino degli archivi, di un poemetto di quarantacinque strofe in dialetto brianzolo composto in occasione dell’onomastico della madre Teresa, il 15 ottobre 1882, e a lei dedicato.

Medesima Lombardia, ma ben diverso dialetto, fu quello di Giovanni XXIII, amante appassionato della propria terra di origine, la Bergamasca. Le frequenti visite a persone e a luoghi bergamaschi, anzitutto alla natia Sotto il Monte, e la profonda conoscenza della storia di Bergamo e dello stile bergamasco di vivere la fede rendono a pieno titolo Angelo Giuseppe Roncalli un “papa bergamasco”. A confermalo anche l’allora vescovo di Bergamo, mons. Adriano Bernareggi, che dell’amico Roncalli ricordava la peculiare “variante locale” della preghiera di inizio e fine giornata: «Vi adoro, mio Dio, e vi ringrazio per avermi creato, redento, fatto cristiano, sacerdote e bergamasco». In grado di parlare il francese e il turco, i tratti perfettamente bergamàsch di Giovanni XXIII si mostravano, però, nell’uso del dialetto, sistematico con parenti e amici, ma usato talvolta anche in occasioni pubbliche. Di più: il dialetto divenne per Roncalli una vera e propria risorsa strategica. È passata alla storia, anche grazie agli studi di Ezio Pellegrini (Giacomo Testa nel solco di Angelo Giuseppe Roncalli, Pezzini, San Paolo d’Argon, 2000), la fitta corrispondenza con l’amico, conterraneo ed ex alunno del Seminario Romano don Giacomo Testa, segretario, consigliere e infine uditore di nunziatura a Sofia, Istanbul e Parigi. Una quarantina di lettere scritte da Roncalli fra il 1939 e il 1956, durante la propria permanenza in Turchia, Grecia e infine a Venezia, accomunate da una caratteristica: l’essere scritte, in tutto o in parte, in dialetto bergamasco. Uno stratagemma per rendere la vita impossibile alle spie, che fossero turche o «chi sota ol tecc», sotto lo stesso tetto. È così che il futuro Giovanni XXIII ci regala eccezionali perle linguistiche e di arguzia: nelle sue lettere la Grecia diviene «la siura Ellena» (letteralmente, la “signora Elena”, giocando sull’assonanza con l’ellenismo), il segretario di Stato card. Luigi Maglione «ol tricotè» (ispirandosi al cognome), fino ad arrivare all’allora sostituto alla Segreteria di Stato Giovanni Battista Montini, «ol montì».

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Proprio con Paolo VI il dialetto compare addirittura nella trascrizione ufficiale di un discorso fatto – va da sé – ai propri conterranei in “terra straniera”, vale a dire ai bresciani residenti a Roma, il 15 febbraio 1964. «Si presenta la domanda: che cosa dare a Roma di quello che si possiede? […] A chi fa questo ragionamento, il Santo Padre suggerirà di considerare soprattutto una delle virtù bresciane, che a Lui sembra quella, a cui i Suoi concittadini tengono maggiormente, tanto che ha ispirato perfino il nome dialettale dato al ragazzo: scèt, che vuol dire “schietto”. Ecco, dunque, la virtù della schiettezza, la sincerità, che è unione interiore tra il pensiero e la parola». Il discorso integrale di Montini, peraltro, costituisce un utile vademecum per chiunque, a vario titolo, si ritrovasse a divenire «un ospite dell’Urbe».

Il dibattito è ancora aperto, invece, attorno a Giovanni Paolo I, al secolo il bellunese Albino Luciani. Semplice, ma nulla affatto sciatto, di una chiarezza che gli derivava dalla vocazione di catechista, Luciani non era solito utilizzare il dialetto, quanto piuttosto una lingua forbita, tanto nei suoi scritti quanto nei suoi interventi, eppure tale da farsi realmente comprendere. La sorella Antonia Luciani ricorda, però, almeno un episodio di inflessione dialettale, originato forse dallo sconcerto. È il 19 luglio 1943 e, a commento dell’incontro che Mussolini e Hitler ebbero tra Feltre e Belluno, Albino Luciani avrebbe detto a voce alta in dialetto: «Siamo nelle mani di due pazzi!» (Stefania Falasca, Mio fratello Albino. Ricordi e memorie della sorella di papa Luciani, 30giorni, Roma, 2003).

Decisamente una contaminazione, invece, quella che ha per protagonista il successore di Luciani, Giovanni Paolo II. È rimasta negli annali la conclusione, tutt’altro che polacca, al tradizionale discorso al clero di Roma del febbraio 2004. «Dàmose da fa!», «volèmose bene!» e «semo romani» furono le frasi del Papa che costrinsero la Sala Stampa della Santa Sede a diffondere un secondo bollettino, dopo quello con il discorso ufficiale «scavalcato» – così disse lui stesso – da Wojtyła. Lo ha ricordato anche Francesco: «La prima educazione civica si riceve anche “in dialetto”, nella famiglia». E a guardare Roma oggi, ce n’è un gran bisogno.

Aggiornamento del 17 dicembre 2019
Negli ultimi giorni anche Francesco si è aggiunto a buon titolo all’elenco dei pontefici “dialettali”, al pari di Giovanni Paolo II, nella categoria delle “contaminazioni”. Nell’omelia da Santa Marta del 5 dicembre scorso, Francesco ha infatti rievocato così la superficialità di tanti propositi di rinnovamento: «Tanti dicono: “No, io cambierò vita” e pensano che cambiare vita sia truccarsi. Cambiare vita è andare a cambiare i fondamenti della vita, cioè mettere la roccia che è Gesù. […] Ma se rifaccio il trucco e faccio una “romanella”, la cosa non va avanti; cadrà. Con le apparenze, la vita cristiana cade». Ebbene, “romanella” è un termine del dialetto romano con cui si indica un lavoro fatto con banalità e trascuratezza. Ma anche la minuta e modesta perpetua del card. Ferdinando Taverna (1558-1619). Così come un vino fatto in casa o in una “fraschetta”, alla bell’e meglio, ottenuto con la rifermentazione del vino in bottiglia. E ancora un piatto di pasta ripassata in padella, al quale Aldo Fabrizi dedicò addirittura un sonetto: «Si avanza un po’ de pasta, mai buttalla: / se sarta co’ un po’ d’acqua solamente, / pe’ falla abbruscolì senz’abbrucialla. / E la riuscita de ‘sta Romanella / che fa faville e che nun costa gnente / dipenne da ‘na semplice padella». Insomma, Francesco – e tutti noi – abbiamo da trarne ispirazione.

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