Combatto il peccato, non le vittime. Così Popiełuszko salvò le croci buttate

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Profeta politico che non parlò di politica, difensore dei lavoratori e della libertà, ma soprattutto sacerdote e martire nella Polonia comunista. È Jerzy Popiełuszko. La sua lezione di misericordia è oggi chiara e di straordinaria attualità. Un santo scomodo, ancora oggi.

Era il 19 ottobre 1984 quando a Włocławek, una città sulla Vistola, nel cuore della Polonia, veniva assassinato Jerzy Popiełuszko. Un nome noto, il suo, al regime comunista polacco. Pericolose le sue omelie, capaci di risvegliare la coscienza del popolo. Dirompente il suo esempio di fede, in grado di mettere il regime di fronte alle sue atrocità. Era pedinato da anni, don Popiełuszko. Automobili con a bordo agenti dei servizi segreti della Polonia comunista lo seguivano nei suoi spostamenti fra le cappelle, nelle assemblee di Solidarność, persino quando visitava i genitori. «È stato nel mese di settembre del 1984 – ricordava la madre, Marianna Gniedziejko, nella sua casa nella remota campagna polacca, al confine con la Lituania – È venuto a casa senza preavviso. Non parlava di sé, ma sapevo che lo seguivano: anche dalle finestre della nostra casa abbiamo potuto vedere le auto con gli agenti. Ma lui era coraggioso, anche se fisicamente debole. Mi ha lasciato la sua tonaca da rammendare dicendo: “La prenderò la prossima volta. Se no, avrai un ricordo di me”. Invece salutandoci disse: “Mi raccomando: se muoio, non piangete per me”». Fu l’ultima volta che la madre lo vide.

La situazione sta volgendo al peggio e don Popiełuszko lo sa. A Roma si prova a convincerlo a riparare in Italia, ma Popiełuszko non intende abbandonare la sua Polonia. Poche settimane dopo, il 19 ottobre 1984, di ritorno da un servizio pastorale da Bydgoszcz a Górsk, Popiełuszko viene rapito da tre agenti del Ministero dell’Interno. Don Popiełuszko viene bastonato, sfigurato, legato fin quasi al soffocamento, rinchiuso nel bagagliaio di un’auto e infine gettato ancora vivo in un fiume. I suoi piedi erano allora legati ad un masso, ma l’intera sua vita era stata ancorata all’unica pietra, Cristo. Aveva 37 anni. L’impunità avrebbe atteso i tre carnefici – due capitani e un colonnello polacchi – condannati a 25 anni di carcere e liberati pochi anni dopo.

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In un’epoca nella quale erano molti i sacerdoti invischiati in politica, Popiełuszko era ritenuto dal regime comunista il più pericoloso, proprio per il suo “fare politica” senza occuparsene. Don Popiełuszko assisteva gli operai, li confessava, era al loro fianco nelle battaglie di Solidarność, li educava a reagire con la preghiera e i canti patriottici alle minacce e alle aggressioni. Il suo omicidio, il suo coraggio, la difesa dei diritti umani, della libertà e della giustizia di cui si fece interprete, rappresentano un punto di rottura nella storia della Polonia. Ma è soprattutto la sua concezione della misericordia a costituire una lezione di straordinaria attualità e chiarezza.

«Combatto il peccato, non le sue vittime», diceva don Popiełuszko. Una frase nella quale riecheggia la condanna della Chiesa per il peccato e l’amore per il peccatore, non in quanto tale, ma in quanto creatura di Dio, fratello. «Infatti nei peccatori dobbiamo odiare il fatto che sono peccatori, e amare il fatto che sono uomini capaci della beatitudine. E ciò significa amarli veramente per Dio con amore di carità», scriveva Tommaso d’Aquino nella sua Somma Teologica (II-II, q25, a6). Amare e odiare fanno entrambi parte della vita del cristiano. L’amore non è melassa né acquiescenza, così come l’odio non è pregiudizio né violenza.

Era scomodo, Jerzy Popiełuszko, ieri come oggi. La verità? Fondamentale, perché «la menzogna è sempre stata il marchio degli schiavi». Così come la libertà, anche di coscienza. «Non potrai salvaguardare pienamente la tua dignità se tieni in una tasca il rosario e nell’altra il libretto di un’ideologia nemica», diceva. Anche in politica. «Una nazione cristiana deve orientarsi secondo la morale cristiana, non ha bisogno della cosiddetta morale laica». Dal regime fu accusato di essere intollerante, di mischiare politica e fede, di essere un istigatore sociale, ma le sue Messe per la patria, nelle quali alle preghiere per la Polonia si univano poesie e canzoni patriottiche, radunavano centinaia di persone, in un’epoca nella quale le assemblee, specie se non autorizzate dalla propaganda del governo, non erano tollerate. Alle sue funzioni partecipavano artisti e intellettuali dissidenti, compagni di molte battaglie contro il regime. Come quella che mirava a difendere la presenza dei crocefissi nelle aule scolastiche che il regime comunista intendeva togliere. A quelle croci orfane, altrimenti buttate, don Popiełuszko diede ospitalità nelle chiese.

Nella predicazione di Popiełuszko fede e cultura erano inscindibili. Le poesie, i canti, la musica, l’arte, la bellezza risvegliano nell’uomo la coscienza e il desiderio della verità. Insieme alla tradizione religiosa, la cultura e la storia danno al popolo la forza di sopravvivere, anche di fronte ai peggiori orrori della storia. Ai funerali di don Popiełuszko, il 3 novembre 1984, parteciparono 600 mila persone. Polacchi per i quali il sacerdote era divenuto un simbolo. Di Cristo e di una nuova generazione.

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