Quei segni rossi del nostro tempo che rischiamo di ignorare

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Alan Kurdi, Carlo Acutis, Benigna Cardoso da Silva. Quelle maglie rosse che sono segni del nostro tempo.

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Sono passati poco più di cinque anni da quel 2 settembre del 2015 che ha segnato la tragica morte del piccolo Alan Kurdi. Con i suoi tre anni, un simbolo troppo grande della crisi europea dei migranti, con la sua morte per annegamento e la foto del suo corpo senza vita depositato dal mare sulle sponde di Bodrum, con indosso una maglietta rossa, quasi un ultimo atto di dolorosa delicatezza. In pochi giorni la sua immagine aveva fatto il giro del mondo, ma a cinque anni di distanza quello scatto è ormai sbiadito nei nostri ricordi, e con esso le emozioni che lo accompagnavano. Eppure la situazione non è poi così cambiata, né tanto meno risolta. Giorni di commozione e indignazione globali. E poi. Quanto dura l’attenzione pubblica per un bambino affogato? Quanto dura l’indignazione per una bambina morta di freddo tra le braccia del padre?

Papa Francesco la chiama “globalizzazione dell’indifferenza”. Anch’essa, in fondo, è un fenomeno divenuto strutturale, parte integrante di questa nostra epoca, al pari delle migrazioni. Queste lo sono nonostante muri e frontiere, l’indifferenza a prescindere da qualche scossa momentanea. Che non trova ormai che poco spazio per farsi strada nell’indole umana, e qualche volta cristiana. Lo sperimentiamo anche con la pandemia ancora in corso.

Siamo forse di fronte a quella che nell’enciclica Fratelli tutti papa Francesco indica come la fine della coscienza storica. «Una perdita del senso della storia – scrive il Santo Padre al n. 13 – che provoca ulteriore disgregazione. Si avverte la penetrazione culturale di una sorta di “decostruzionismo”, per cui la libertà umana pretende di costruire tutto a partire da zero. Restano in piedi unicamente il bisogno di consumare senza limiti e l’accentuarsi di molte forme di individualismo senza contenuti». A farne le spese rischiano di essere soprattutto i giovani, o le brutte copie che ne rimarrebbero, manipolati affinché «disprezzino la storia, rifiutino la ricchezza spirituale e umana che è stata tramandata attraverso le generazioni, ignorino tutto ciò che li ha preceduti».

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Ironia della sorte, questo nostro mondo che va di fretta, spinto dalle società dell’immagine che lo abitano, si è fermato di nuovo in questi giorni, meravigliato, incredulo, forse un po’ superficiale, di fronte ad un’altra maglietta rossa, ad un altro giovane, ad un’altra icona del nostro tempo. Fra le molte fotografie di Carlo Acutis, dall’immagine ufficiale della beatificazione ai social, Chiesa e media hanno già decretato che sia di nuovo una maglietta rossa a farsi icona di un’opportunità. «Attraverso la santità dei giovani la Chiesa può rinnovare il suo ardore spirituale e il suo vigore apostolico», scriveva lo scorso anno papa Francesco al n. 50 dell’esortazione apostolica post-sinodale Christus Vivit, più volte richiamata anche nella nuova enciclica. «Il balsamo della santità generata dalla vita buona di tanti giovani può curare le ferite della Chiesa e del mondo».

Come la vita buona di Benigna Cardoso da Silva, assassinata a tredici anni il 24 ottobre 1941 a Oiti, Santana do Cariri, nello Stato brasiliano del Ceará. Anche di lei papa Francesco ha autorizzato la beatificazione, “eroina della castità” per aver resistito fino all’estremo sacrificio di sé agli assalti sessuali di un adolescente, vicenda che inevitabilmente ricorda quella dell’italiana Maria Goretti. Anche lei – di nuovo quell’ironia del mondo, della Chiesa e della storia – indossa un vestito rosso.

Rosso. Colore dell’attenzione e della passione – anche con l’iniziale maiuscola – che risveglia i sensi e riporta la mente al momento presente. Qualche volta colore della protesta, dello sdegno e del martirio. Colore del pericolo, anche di perdersi qualcosa del nostro oggi, di rimanere distratti di fronte ai segnali, a certi segni del nostro tempo.

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