A Marcinelle ci sono lampade che vanno tenute accese. Lampade che tengono viva la memoria di una tragedia in cui la morte venne improvvisa e lampade che illuminano le tante tragedie del presente. Lampade come quelle che in una miniera servono per segnalare i due pericoli più temuti, il buio e il grisù, in agguato dentro ai cunicoli.
Allora la morte non venne dal gas. Erano le 8:11 dell’8 agosto 1956 quando per un errore umano un imponente incendio divampò nel pozzo d’entrata dell’aria nella miniera di carbone Bois du Cazier di Marcinelle. In poche ore la vita e la storia di questa cittadina belga colma di minatori – 142 mila nel 1956, dei quali 63 mila stranieri, 44 mila italiani – sarebbe cambiata per sempre. Il fumo scaturito dall’incendio riempì in breve tempo ogni angolo della miniera. Uomini e cavalli, bloccati all’interno di quel labirinto di terra, soffocati dal fumo, trovarono la morte in vicoli ciechi. In superficie trascorsero ore prima che autorità, soccorsi e soprattutto semplici cittadini comprendessero la gravità della tragedia. Le scuole accolsero i feriti, le chiese i morti. A Marcinelle persero la vita 262 minatori, di cui 136 italiani. Per l’Italia, il più grave disastro all’estero dopo quelli statunitensi di Monongah e Dawson. Morti orfane e lontane, di emigranti strappati alle loro famiglie e inghiottiti dalla terra.
«L’8 agosto di ogni anno dove era il sito minerario Bois du Cazier la campana “Maria Mater Orphanorum” diffonde 262 rintocchi accompagnati dai nomi delle altrettante vittime della tragedia che qui avvenne l’8 agosto 1956. Si aggiungono dieci rintocchi in memoria di altri disastri minerari o tragedie sul lavoro. Accanto alla campana sono anche gli ex minatori in tuta da lavoro e con due lampade simbolicamente accese: una serviva per vedere nel buio, l’altra segnalava la presenza del grisou. La lampada più luminosa è la testimonianza di questi anziani minatori», spiega Paolo Bustaffa, ex direttore del SiR e presidente diocesano dell’Azione Cattolica della diocesi di Como, che alla memoria del disastro di Marcinelle dedica da anni cuore e impegno.
Domani, 8 agosto 2016, a 60 anni dalla tragedia, l’Azione Cattolica della diocesi di Como si unirà alla comunità parrocchiale di Berbenno di Valtellina per fare memoria di quelle morti. Anche Berbenno, comune di poche migliaia di abitanti nella provincia di Sondrio, ebbe il suo lutto. Attilio Dassogno, minatore originario di Regoledo di Berbenno, emigrato dalla Valtellina in Belgio, trovò la morte a Marcinelle. Nel cimitero di Berbenno una lapide lo ricorda. Ne celebra il nome, ma non ne custodisce il corpo. «È ancora nelle viscere della terra di Marcinelle», ricorda Bustaffa. «La ricerca venne sospesa nel dicembre del 1957, più di un anno dopo la tragedia». Aveva poco più di trent’anni, Attilio Dassogno, era sposato e padre di due bambini. È per quelle giovani vite che Attilio accettò di emigrare in Belgio in cerca di fortuna, di credere alle promesse di quei manifesti rosa appesi a tutte le finestre dei Comuni. Manifesti che annunciavano il lavoro nelle miniere belghe come fosse l’Eldorado. È per i propri figli che Attilio prese su di sé la fatica dell’emigrazione, la fatica dell’essere lontano dalla famiglia, la fatica di andare in un luogo sconosciuto, la fatica di scendere ogni giorno nelle viscere della terra.
A Berbenno, però, non si farà soltanto storia. Troppo attuale l’insegnamento che possiamo trarre dal disastro di Marcinelle per lasciarlo solo ai libri di storia. «Penso che ai rintocchi di Marcinelle se ne dovrebbero aggiungere molti altri in memoria di quanti sono morti e ancora muoiono in mare, nel deserto e nei campi della disumanità mentre cercavano e cercano di fuggire dalla guerra, dalla fame, dalla violenza, dall’ingiustizia», precisa Bustaffa. «Sono rintocchi che dovrebbero risuonare nella coscienza, perché si interroghi di fronte alla sofferenza che molte persone migranti stanno oggi vivendo. La memoria solo così può assolvere il suo grande compito educativo: non tenerne conto sarebbe tradirla e ancor più tradire il sacrificio di 262 minatori, di cui 136 italiani, e delle loro famiglie». Volti che parlano muti dal memoriale eretto sotto una delle torri minerarie. Un tradimento che si rinnova ogni giorno nei volti di quanti ancora oggi sono costretti a lasciare la propria terra.
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Il Sismografo
75 anni Accordo italo/belga 1946
Dal 1951 e per 10 anni mio padre scese nella miniera più profonda del Belgio a 1.300m, sempre turno di notte! Il “grisou” quel terribile gas infiammabile gli aveva “stellato” la schiena. Da piccolina non capivo cosa fosse e poi me lo spiegò con “filosofia”. Seppi molto più tardi quando dovette lasciare quel “lavoro” cosa fosse successo a Marcinelle. Quel giorno si era presentato au Bois du Cazier e aveva descritto per il suo giornale il primo giorno davanti ai cancelli colmi di famiglie in lacrime. Ho saputo oggi con sincero rammarico che vi era fra le vittime Attilio Dassogno, di Berbenno, un valtellinese (emigrato come la nostra famiglia morbegnese). Mio suocero siciliano era sceso per 16 anni in miniera.
Non dimenticare MAI le proprie origini e i sacrifici dei nostri padri, che penso siano fieri di noi.
Enrica da Mons (Belgio)
Grazie per la testimonianza, Enrica. È una vicenda toccante, che purtroppo si rinnova ogni giorno.
Sull’emigrazione valtellinese le segnalo il mio libro: “La follia del partire, la follia del restare”.
Un caro saluto.