Esportare la democrazia nella Chiesa: come in Cina, in Germania oppure come alle origini? La discussione è aperta anche in Italia

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Il governo cinese ha raggiunto la via «democratica» all’elezione dei vescovi. In Germania, al Sinodo si domanda che la Chiesa «risponda alla conquiste della democrazia». E se alcuni invocano la Chiesa “delle origini”, anche in Italia c’è chi vorrebbe “esportare la democrazia” nella Chiesa.


«Una dichiarazione rilasciata dalla comunità cattolica della provincia, regione autonoma o comune direttamente sotto il governo centrale che attesti l’elezione democratica del vescovo». È quanto si legge all’art. 16 del nuovo documento sulle Misure amministrative per il clero religioso che entrerà in vigore in Cina il prossimo 1° maggio (qui la versione originale in cinese, qui la traduzione in inglese). Nella nuova procedura, sempre maggiore peso avranno il Partito comunista cinese, al quale il clero dovrà garantire il proprio supporto, l’Associazione patriottica cattolica cinese e la Conferenza episcopale cattolica cinese, sotto il controllo del regime.

Sebbene si faccia riferimento anche al clero cattolico («I vescovi cattolici sono approvati e consacrati dalla Conferenza episcopale cattolica cinese. L’Associazione patriottica cattolica cinese e la Conferenza episcopale cattolica cinese, entro 20 giorni dalla consacrazione del vescovo, devono compilare un modulo di segnalazione del vescovo cattolico e segnalarlo all’Amministrazione statale per gli affari religiosi per la registrazione»), nel nuovo documento non si menzionano né la Santa Sede né il Papa, al quale spetta la nomina dei vescovi in ​​base all’accordo siglato nel 2018 fra Santa Sede e Cina, rinnovato lo scorso anno.

Ma di “democrazia” – o presunta tale – si parla anche in Germania. Fa discutere un documento diffuso dal sito di informazione cattolica The Pillar, dal titolo Forum I: Potere e separazione dei poteri nella Chiesa – Partecipazione comune e condivisione nella missione. Il documento, adottato dal Sinodo tedesco il 3 dicembre 2020 e diffuso il 22 gennaio 2021 ai soli membri dell’assemblea sinodale, sarebbe stato ottenuto dal medesimo sito internet, che lo ha reso pubblico. Difficile, in questi casi, stabilire l’affidabilità dell’indiscrezione e quanto i contenuti del documento riflettano – ancora? – il pensiero dei partecipanti al Sinodo in corso in Germania, ma appaiono sufficientemente rappresentativi di quelle “riforme” più volte criticate anche da papa Francesco (sebbene egli stesso sia sostenitore di un sano spirito sinodale), dall’abolizione del celibato presbiterale all’ordinazione delle donne.

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“Democrazia” è una parola ricorrente nel documento del Sinodo tedesco: ben 37 volte. «Per poter essere fonte di motivazione e risonanza per una cultura democratica, soprattutto in una sfera prepolitica, la Chiesa deve rispondere anche alle conquiste democratiche», è detto nell’Introduzione. «Il suo sistema di diritto e di potere deve essere riconoscibile come espressione e risorsa di valori forti e positivi che formano l’ethos di modi di vita liberi e democratici».

Fra i «criteri comuni» con i quali è resa l’idea di democrazia nella «sinodalità come principio della Chiesa» (n. 7.2), si rivendica: «Una forma essenziale di partecipazione è il diritto di voto. Chiunque venga incaricato di una posizione di leadership nella Chiesa cattolica deve essere eletto a questo scopo dal popolo della Chiesa, se necessario attraverso organi rappresentativi eletti. Fintantoché il diritto ecclesiale universale non prevede le elezioni, devono essere trovate forme idonee secondo il diritto diocesano affinché il popolo di Dio possa partecipare efficacemente alla selezione delle persone che assumono una carica di leadership nella Chiesa».

Elezione, diretta o tramite organi rappresentativi, di vescovi e presbiteri da parte dei fedeli, dunque? Non solo. Anche in previsione – o in seguito – all’eventuale elezione, fin da subito «occorre rafforzare lo statuto degli enti [rappresentativi dei fedeli] già esistenti, perché possano non solo consigliare, ma anche decidere, sia a livello parrocchiale che diocesano. Se è previsto che il vescovo o il parroco possano porre il veto a una decisione, deve essere stabilita una maggioranza qualificata con la quale [l’opposizione del vescovo o del presbitero] possa essere annullata, se necessario».

Al di là dei toni sin troppo espressamente politicizzati, dopo quasi due anni di cammino sinodale ciò che stupisce, una volta di più, è constatare come una parte – quanto grande? – dell’assemblea sinodale tedesca nei fatti stia finendo con il rafforzare proprio quella mentalità che a parole sostiene di voler combattere: ossessione per il potere nella Chiesa (e per chi lo detiene), in luogo di una sincera riflessione su autorevolezza e credibilità della Chiesa stessa; autoreferenzialità, anche in chiave nazionalistica, in luogo di una Chiesa in uscita; destrutturazione propria della contestazione politica, in luogo della rivoluzione dell’annuncio cristiano.

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Di “esportare democrazia” nella Chiesa si parla da tempo, in certi ambienti, anche in Italia. Sovente il riferimento è alla Chiesa “delle origini” – tale fino a quale secolo? – qualche volta più presunta che reale, e rispetto alla quale da sempre le interpretazioni, le omissioni e talvolta la fantasia si sprecano per dirottarne il corso verso il proprio mulino. Oggi, al can. 377 – §1 del Codice di diritto canonico è indicato: «Il Sommo Pontefice nomina liberamente i Vescovi, oppure conferma quelli che sono stati legittimamente eletti».

Il risultato di una storia lunga due millenni. «Come venivano nominati i vescovi? Le procedure erano svariate», scrive il prof. Antonio Menniti Ippolito sul sito dell’Associazione Italiana di Professori di Storia della Chiesa (AIPSC). «Potevano essere i vescovi vicini alla diocesi resasi vacante a designarli, col concorso del clero e del popolo (che poteva esprimersi in forme diverse ed avere più o meno peso), e la nomina doveva poi essere confermata dal metropolita, ossia dal vescovo che era a capo della metropoli, ossia la città matrice o principale della diocesi e che godeva di prerogative di controllo sui vescovi comprovinciali, poi detti, dal sec. VIII, suffraganei (così come si dettò a Nicea, 325, e fu confermato da una decretale di Innocenzo I nel 404, che specificava però che nella Provincia romana serviva la conferma del papa)».

Non tardano a delinearsi problemi nei rapporti con l’autorità politica, ben propensa a strumentalizzare Chiesa e clero. «Con i carolingi e all’interno della rinnovata struttura imperiale le forme d’intervento del potere politico nella designazione dei vescovi si fecero via via più invasive e ciò portò alla nascita della “guerra delle investiture” che avrebbe animato i rapporti tra Papato e Impero per un lungo periodo a cavallo del I millennio».

Anche per questo, nel tempo, i pontefici si riservano il diritto alle nomine episcopali, fondamentale per garantire l’autonomia della Chiesa e la fedeltà dei vescovi unicamente al Vangelo. Eppure, «la realtà di queste Chiese assoggettate a prìncipi che si comportavano da “papi” all’interno dei loro territori e che designavano vescovi che erano di fatto loro funzionari, costituiva ancora nel sec. XIX per Antonio Rosmini una delle cinque piaghe che affliggevano la Chiesa», osserva Menniti Ippolito.

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Va da sé che sinodalità e corresponsabilità battesimale, come indicato anche dal Vaticano II, siano valori preziosi non solo all’interno della Chiesa, ma per la Chiesa. Al pari di un sano protagonismo di tutto il popolo di Dio, uomini e donne, e di una maggiore trasparenza nella nomina dei vescovi. Però, si può ben comprendere che se la nomina di presbiteri e vescovi fosse affidata esclusivamente all’elezione popolare, vale a dire al gradimento di una particolare comunità o dei suoi organi di rappresentanza, il rischio di venire meno alla fedeltà al Vangelo sarebbe tanto insidioso quanto diffuso. Si pensi, per fare un esempio tutt’altro che irrealistico, ad una comunità parrocchiale o diocesana nella quale la “maggioranza democratica” esprimesse posizioni contrarie al Vangelo, forsanche perché sedotta dallo spirito del mondo e da presunte conquiste di modernità. E che dire, d’altra parte, della sgradevole campagna elettorale che rischierebbe di innescarsi sul fronte clericale, combattuta a colpi di gradimento più che di coerenza con il Vangelo, che da sempre mal si presta all’esame del suffragio?

Ma c’è chi non è d’accordo. «Il decentramento del papato e le elezioni locali dei vescovi avrebbero come conseguenza una maggiore partecipazione del popolo», si rivendica dal sito del Coordinamento Teologhe Italiane. «Molti teologi e studiosi della Chiesa sono d’accordo. Hans Küng (teologo svizzero, fra i più aspri critici di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, N.d.R.) si chiede: “Cosa si deve fare se svaniscono le aspettative di una riforma… dovremmo cedere alla rassegnazione? Al contrario, di fronte alla mancanza di impulso riformatore da parte della gerarchia, bisogna passare all’offensiva, premendo per la riforma dal basso verso l’alto”». Offensive e pressioni. Come nella migliore delle democrazie.

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