Omosessualità e seminari? Un nuovo “esperimento”, ma solo mediatico, sul cattivo che si inventa e il buono che non si vede.
I gay potranno accedere ai seminari purché casti (Agi), Chiesa dice sì a gay in seminario: “Ma devono essere casti” (Adnkronos), “In seminario anche gay, ma è essenziale la castità” (Ansa, virgolettato), Cei, i giovani gay possono entrare in seminario (ma solo se «in castità») (Il Sole 24 Ore), Chiesa, in seminario possono entrare ragazzi gay ma devono mantenersi casti: ecco le nuove norme (Il Messaggero). C’è anche chi lo definisce un «esperimento», prendendo alla lettera – con un po’ di semplificazione – la locuzione ad experimentum.
Lo spunto è offerto dall’entrata in vigore il 9 gennaio, ad experimentum per tre anni, del documento La formazione dei presbiteri nelle Chiese in Italia. Orientamenti e norme per i seminari (4a edizione), approvato dalla 78a Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana nel novembre di due anni fa e dal Dicastero per il clero all’inizio dello scorso dicembre.
A giudicare da molti dei titoli comparsi in questi giorni su agenzie di stampa e quotidiani online ci troveremmo di fronte all’ennesima rivoluzione a tinte policrome, tutta aperture e castità. Una svolta, che dall’eccesso di f****aggine nella Chiesa, denunciata tempo fa da papa Francesco, dovrebbe condurci in una sorta di capsula di Petri, arguto ritrovato di un batteriologo di fine ‘800 per far crescere in santa pace qualche colonia di microrganismi su cui “sperimentare”.
La novità che non c’è
Nulla di tutto questo. Su gay e sacerdozio le regole non sono affatto cambiate, si affrettano a precisare dalla Cei per tramite di Avvenire. E anche questa non sarebbe di per sé una novità. Il fatto è che, in questo caso, la notizia non ha realmente alcun fondamento. A dirla tutta, non si comprende neppure dove sarebbe la novità: è piuttosto chiaro a chiunque abbia varcato almeno una volta le porte di un seminario in anni più o meno recenti quanto questo supposto “esperimento” sia tutt’altro che inedito, e come anzi se ne possano già ampiamente valutare gli esiti.
A leggere fra le righe degli Orientamenti, invece, risulta evidente l’intenzione dei vescovi italiani di esercitare una santa prudenza nell’affrontare una tematica notoriamente spinosa (e dal diffuso coinvolgimento personale) come è quella dell’omosessualità. Il paragrafo 44 degli Orientamenti, che entra nello specifico della questione, si apre con un ampio virgolettato tratto da un documento dell’allora Congregazione per il clero, datato 2016, Il dono della vocazione presbiterale. Ratio Fundamentalis Institutionis Sacerdotalis, che nel passaggio in esame riprende un documento ancora precedente, di epoca ratzingeriana (2005), e il Catechismo della Chiesa cattolica:
«In relazione alle persone con tendenze omosessuali che si accostano ai Seminari, o che scoprono nel corso della formazione tale situazione, in coerenza con il proprio Magistero, la Chiesa, pur rispettando profondamente le persone in questione, non può
ammettere al Seminario e agli Ordini sacri coloro che praticano l’omosessualità, presentano tendenze omosessuali profondamente radicate o sostengono la cosiddetta cultura gay. Le suddette persone si trovano, infatti, in una situazione che ostacola gravemente
un corretto relazionarsi con uomini e donne».
Il buono che non si vede
Ferme restando le linee guida generali, ribadite in anni recenti anche da papa Francesco, nei nuovi Orientamenti si introducono prospettive decisamente più interessanti della presunta “apertura dei seminari” ai giovani con tendenze omosessuali.
Anzitutto, è recepita l’esigenza di collocare l’intero discernimento su un piano più alto e articolato rispetto a quello della sola sessualità – fissazione di molti ambienti ecclesiali, ieri come oggi, di predicatori di nutrito seguito in vena di consigli di coppia, ma anche di buona parte della stampa – nel tentativo di «coglierne il significato nel quadro globale della personalità del giovane, affinché, conoscendosi e integrando gli obiettivi propri della vocazione umana e presbiterale, giunga a un’armonia generale».
Sembra che si stia finalmente abbandonando l’anacronistica distinzione fra “preti” e “non”, riconoscendo anche ai primi – come a chiunque – una necessaria, e talvolta urgente, attenzione alla sfera «affettivo-sessuale».
Come non cogliere, dentro e fuori dal mondo ecclesiastico, la tragica attualità di una falsa idea dell’amore, «che vuole possedere, alla fine diventa sempre pericoloso, imprigiona, soffoca, rende infelici»?
Come non comprendere che in tanti giovani, seminaristi e non, molte delle manifestazioni di disagio derivano da un’affettività sempre più disattesa e dall’incomprensione delle loro esigenze emotive?
Come non ricordare che vocazione – non solo per un presbitero – significa lasciarsi interrogare da una Parola che ridesta il «cuore aprendolo alla speranza, sentendosi portatori di una benedizione che diventerà feconda per molti altri»?
Sono molte le tematiche trattate nel documento Cei, dalle tutele nei casi di abuso alla collaborazione con psicologi e figure femminili, dalle vocazioni adulte alla questione (tutt’altro che secondaria) dei giovani usciti o dimessi da altri seminari, fino all’uso – e abuso – di social e nuovi media. Lo stesso celibato ecclesiastico, che buona parte della ribalta mediatica riconduce ad un pruriginoso nascondimento al sesso, è invece «inteso come un dono da riconoscere e verificare nella libertà, gioia, gratuità e umiltà». Tutti concetti estranei alla retorica della polemica. Speriamo non anche al linguaggio della comunicazione.
La tentazione è di chiudere gli occhi – altro che i seminari! – di fronte allo sconforto e voltarsi verso qualche sperduto limbo di illusione oppure di contestazione. Ma sarebbe un errore farlo proprio ora, sull’orlo di un baratro sociale di cui a fatica si scorge il fondo. La speranza ci chiama alla testimonianza del bello, anche fra le righe.
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