L’Afghanistan di Angelo Panigati. Come si fa a credere al paradiso in terra?

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[4/4] Quarto ed ultimo appuntamento con l’Afghanistan di padre Angelo Panigati, missionario barnabita scomparso nel 2005, dal 1965 al 1990 unico sacerdote cattolico nel Paese, «una parrocchia grande due volte l’Italia» (qui il primo, il secondo e il terzo appuntamento della serie, qui il libro nel quale ho raccolto alcuni stralci della sua esperienza).


Di padre Angelo Panigati

Ai piedi occidentali della collina di Bimarò, a Kabul, nel quartiere di Scerfun, si trova il cimitero cristiano (antico cimitero di guerra inglese). Fino al ritiro delle truppe sovietiche, è stato rispettato nonostante tutti i piani regolatori fatti dalle diverse amministrazioni della città.

In questo cimitero ho sepolto un buon numero di drogati che hanno trovato la morte in Afghanistan. È il ricordo di questo “luogo di riposo” che appare nella mia memoria, a richiamare le parole “droga” e “bontà”. Purtroppo, la realtà che esse esprimono, sono presenti nella vita quotidiana come un’assurda coppia che convive illogicamente. La droga è prodotta in abbondanza in Afghanistan. La bontà della gente tende una mano alle vittime del “loro” prodotto.

[…] All’inizio degli anni Settanta il Nepal, fino ad allora paradiso della droga, aveva reso più difficile, economicamente, l’entrata nel Paese. Dal canto suo l’India aveva reso le frontiere quasi impenetrabili, via terra, meno che per i possessori di un passaporto britannico o svizzero. L’ingegno dei cercatori di droga o di esperienze “orientali” si sviluppò d’incanto come pure la falsificazione di passaporti di quei due Paesi.

Una volta un giovane drogato sudamericano fu ospedalizzato in gravi condizioni. Mi fece chiamare e, confessandosi, mi diede il suo nome vero. Apparve, sulla scena di questo fatto di cronaca, la bontà di un medico afghano. Si prese cura del malcapitato e con esperienza ammirevole si impegnò ad allontanarlo dalla condizione disperata di quando era entrato nell’ospedale. Lo visitavo ogni giorno e vedevo il suo progresso. Ma vedevo pure, nel giardino, comparire dei giovani stranieri dall’aria all’apparenza indifferente ma dall’atteggiamento tipico delle spie.

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Seppi che visitavano il piovane dopo di me. Temevano che mi rivelasse qualcosa come il punto dei passaporti o che mi desse informazioni sul circolo della droga. Per dieci giorni non ebbi particolari difficoltà. Il miglioramento dell’ammalato permetteva un contatto umano sempre più consolante. Un suo vicino di letto, però, reagiva alla nostra conversazione in un modo strano. Dopo dieci giorni, una telefonata da parte del medico, buon Samaritano, mi fece preparare abiti e calzini per l’uscita del mio giovane amico. Ero da lui un’ora dopo. Ma era morto. Mentre il medico mi telefonava gli avevano fatto un’iniezione letale. Arrivò, in quel momento, anche la polizia.

Il Paese d’origine del defunto non aveva, a Kabul, né rappresentanza né incaricati di qualche altra nazione. La polizia mi chiese di aiutarla a semplificare le cose. Avvolsi il cadavere nella plastica e lo feci portare discretamente su un carretto fino al cimitero cristiano.

L’anziano custode chiamò i becchini. Tutti loro erano sempre di una deferenza e di una collaborazione commovente. Quando piantai la croce di legno scrissi il nome che soltanto io conoscevo. Mi trovai di fianco un signore dell’Est europeo che si mise a piangere dicendo: “Almeno ti hanno sepolto con il tuo vero nome” (non mi aveva mentito. L’indirizzo che mi aveva dato della sua famiglia era giusto. Ebbi contatti epistolari con la sua gente).

La sera di quel giorno, prima della messa quotidiana, trovai in chiesa una cinquantina di giovani. Mi chiesero dove avevo sepolto “quello là”. Li guardai con compassione e tolleranza. Tra di loro c’era forse l’assassino. Diedi la chiave del cimitero a un amico italiano pregando di accompagnarli sulla tomba.

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Il giorno dopo mi chiamò il custode. La croce era stata tolta. Al suo posto avevano collocato una pipa in pietra per fumare ritualmente l’hashish e, attorno, delle sigarette con un pezzettino verde di dado della stessa droga. Naturalmente tolsi il tutto e ripiantai la croce.

[…] Era l’epoca in cui, a Kabul, le pensioncine a buonissimo mercato per drogati sorgevano come funghi. Il punto di riferimento nei casi di malattia o di decesso era sempre questo unico sacerdote. Il mio olfatto si era abituato perfino a distinguere il tipo di droga caratteristico di ogni piccolo ristorante. Potevo dire al medico del pronto soccorso qual era la causa del malore della vittima. Quanta disponibilità verso questi stranieri! Una parte della società afghana creava la loro rovina. Un piccolo gruppo di buoni musulmani servivano con la loro competenza i cristiani disorientati.

Quattro giovani del Nuovo Continente morirono, una notte, asfissiati nel loro pulmino davanti alla grande statua del Buddha di Bamian. Gli afghani del posto mi riportarono le loro salme. La polizia mi diede i loro documenti e i loro averi. In una borsa trovai una lettera. Descriveva la loro peripezia ma finiva annunciando l’arrivo, qualche giorno dopo, in Nepal, definito come “paradiso”. Un poliziotto mi chiese: “Come fa, questa gente, a credere che ci possa essere il paradiso in terra?”.

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