Nel Sorriso di Cristina

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No, nelle righe che seguono non si dà un giudizio sulla scelta di Cristina Scuccia. Piuttosto, su di noi.


No, nelle righe che seguono non si dà un giudizio sulla scelta di Cristina Scuccia. Se, cioè, quella di lasciare dopo 13 anni le Suore Orsoline della Sacra Famiglia sia stata una decisione di libertà o il frutto di una vocazione vissuta con superficialità. Oppure, ancora, l’esito di una dolorosa crisi personale o il coraggio di cambiare direzione, quando in molte e in molti, per opportunismo, scelgono di continuare a nascondere l’assenza di una vocazione dietro la veste di una vita sicura in tempi difficili, anche economicamente.

Si tratta, piuttosto, di un giudizio su di noi. Su un sistema – di una parte della società prima ancora che di una parte del mondo dello spettacolo – che prova ad usare e abusare della vocazione, non solo religiosa, di tanti giovani, anche senza scomodare il brivido di un abito dismesso.

Dopo la vittoria, nel 2014, del talent-show “The Voice” e le numerose apparizioni televisive, la notizia dell’abbandono della vita consacrata da parte di Cristina Scuccia ha goduto di una prevedibile sovraesposizione mediatica, curata ad arte. Lo testimonia, come sempre in questi casi, anche la varietà e il tenore dei commenti espressi in rete.

Un precedente, in particolare, è stato più volte evocato in questi giorni, per lo più in chiave critica: quello della celebre Suor Sorriso (Sœur Sourire), vero e proprio marchio commerciale costruito negli anni Sessanta attorno a suor Luc-Gabriel, al secolo Jeanne-Paule Marie Deckers, religiosa belga della Congregazione delle Domenicane missionarie di Nostra Signora di Fichermont di Waterloo.

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In verità, al di là degli intenti polemici e degli accostamenti inquietanti, la vicenda della Deckers offre almeno un prezioso spunto di riflessione. A discapito del nome, infatti, la storia di Suor Sorriso è tutt’altro che lieta.

Il successo mondiale che la travolge alla metà degli anni Sessanta, e che la convince ad abbandonare la Congregazione, è il medesimo che, pochi anni dopo, la stritola in una dinamica di indifferenza, venuto meno l’esotismo di una suora esibita come “fenomeno”. Afflitta da problemi economici e tormentata dal fallimento e dalla solitudine, la Deckers precipita in un vortice di depressione e alcolismo, che la conduce, nel 1985, a suicidarsi insieme alla compagna Anne Pécher, anch’essa una ex religiosa.

Nulla di tutto questo ha a che fare con Cristina Scuccia, naturalmente. Certo, la lettura che la vuole aver ritrovato il sorriso e la vera se stessa dopo la “liberazione” da un velo divenuto troppo stretto ricorda il filone di protesta tentato dalla Deckers dopo l’addio ai voti, contro una Chiesa incapace di modernizzarsi e il maschilismo della società.

L’auspicio è che la Scuccia non intenda imboccare una scorciatoia fin troppo scontata. Ma se appaiono sempre più remoti i già improbabili frutti spirituali che ci si attendeva dal corso scenico, il rischio è che il meccanismo si autoalimenti fino ad incepparsi, a danno anzitutto della Scuccia.

Nuove dinamiche commerciali si sono infatti imposte dal tempo in cui una Orietta Berti agli esordi cantava in Italia le canzoni di Suor Sorriso. Dinamiche che rappresentano, al medesimo tempo, un’opportunità e un’insidia. A cominciare dalla già marcata opera di restyling del “personaggio Scuccia” e dagli (ir)reality show ai quali la Scuccia sembra fin troppo evidentemente instradata. Scomodi palcoscenici di fiera – non più paesana, ma televisiva e social – che troppo spesso in passato hanno fatto della fragilità un’esibizione e delle illusioni un’esca sin troppo efficace.

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Cristina Scuccia è una bella e giovane donna e viene naturale augurarle il meglio, d’ora in poi. Anzitutto che, magari con l’aiuto dell’ufficio stampa che già l’assiste, cameriera in Spagna, la rumorosa bolla speculativa gonfiata attorno al suo piccolo gran rifiuto perda la voce.

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