Arte che unisce, arte che polarizza. Qualche volta arte che offende. Ma arte che parla del nostro tempo e della Chiesa. Intervista allo storico dell’arte, mons. Timothy Verdon.
C’è stato un tempo in cui l’arte ha contribuito ad unire verso l’alto, anche nella Chiesa. Un ponte verticale fra storie, comprensioni e sensibilità religiose diverse. In una comunità cristiana oggi sempre più divisa, l’arte sembra ridotta invece ad espressione della polarità e strumento della polarizzazione, quando «posizioniamo i carri in cerchio, come nei film western». Una stagione delicata consiglierebbe buon senso, prima ancora che prudenza pastorale, anche nell’arte. Eppure «non ci si può improvvisare un artista cristiano». E forse neppure committente. Proprio mentre si instaura un rapporto sempre più articolato fra opere d’arte, artisti e critica, talvolta feroce, quando «tutti sappiamo tutto subito e in dettaglio, che sia verità o fake news». Rimane un fatto: che il tempo in cui l’arte avrà esaurito ciò che ha da dire è ancora molto lontano.
Ne parlo con mons. Timothy Verdon, storico dell’arte di riferimento internazionale, direttore del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze, responsabile dell’Ufficio diocesano di arte sacra e direttore scientifico del Centro ecumenismo di arte e spiritualità “Mount Tabor” di Barga (Lucca). Autore di un centinaio di libri sull’arte sacra in lingua italiana e inglese, ha collaborato con le università di Harvard e di Stanford ed è stato consultore della Pontificia commissione per i beni culturali.
Mons. Verdon, per certi versi sembriamo più impegnati nella sottrazione che nell’aggiunta. In anni recenti, in ambienti afroamericani è stato addirittura coniato un termine specifico: cancel culture, cultura del boicottaggio prima ancora che cultura della cancellazione. Non ne sono esenti storia e arte: pensiamo alle statue di personalità del passato, distrutte o rimosse. Come interpretare questo tempo?
In questo terzo decennio del 21esimo secolo, viviamo tutti preoccupati, se non addirittura spaventati – dalle malattie, dalle guerre, dall’economia mondiale in tilt, da situazioni sociali che fino a qualche anno fa ci immaginavamo risolte – e quindi posizioniamo i carri in cerchio, come nei film western, sperando di poter resistere. L’inclusività è un ideale difficile da definire, perché all’interno del fortino non tutti possono entrare.
In altri casi, la cancellazione è motivata da ragioni di fede. Hanno fatto scalpore, nel 2019, le sculture della Pachamama sottratte dalla chiesa di Santa Maria in Traspontina, a Roma, e gettate nel Tevere, perché ritenute idolatriche. Pochi giorni fa, all’interno del Duomo di Linz, in Austria, una statua della Vergine partoriente, che potremmo quanto meno definire sui generis, è stata decapitata perché giudicata blasfema. Si tratta di eccessi isolati di sensibilità oppure c’è un limite alle opere d’arte che è opportuno collocare nelle chiese?
Tra i pochi luoghi sicuri, al parere almeno di molti credenti, ci sono le chiese, a cui viene chiesto di rimanere uguali a quelle “di sempre”. Le resistenze a papa Francesco nascono dall’ira che i suoi tentativi di cambiamento suscitano. Per lui e per i vescovi il problema è come rieducare i cristiani a una flessibilità – a un’apertura a ciò che lo Spirito sta forse dicendo oggi alle chiese – che però può non offrire la sicurezza che le persone cercano. In alcuni casi l’ira di chi si sente minacciato nel foro intimo della fede può manifestarsi in gesti violenti, come la distruzione di immagini ritenute blasfeme.
È anche vero, però, che immagini od opere che possono turbare i credenti non devono essere ammesse nei luoghi dove essi vanno a pregare: la cura pastorale dei vescovi li obbliga ad avere ben presenti le sensibilità della persone a loro affidate e a proteggere anche i più deboli, anche sul piano intellettuale ed estetico. Una chiesa non è una galleria d’arte, dove ogni provocazione è ammessa.
Che alcuni artisti – e committenti – abbiano perso il senso dell’arte, soprattutto dell’arte cristiana?
La Chiesa ha fatto poco per preparare artisti secondo il proprio cuore, dando per scontato che essi capissero il cristianesimo. Soprattutto, molti pastori hanno un concetto dell’arte non come una componente della loro missione a santificare e istruire il popolo di Dio, bensì come mera decorazione. Spesso vengono chiamati artisti ed architetti celebri, ma lontani dalla fede. Non ci si può improvvisare un artista cristiano.
In effetti, qualche volta il problema non sta tanto nell’opera d’arte, quanto nell’artista. Il caso Rupnik: il vescovo di Tarbes e Lourdes, mons. Jean-Marc Micas, ha ammesso che sull’idea di togliere i mosaici che decorano il santuario «le opinioni sono molto divise e spesso fonte di polarizzazione» e che serve ulteriore discernimento. Come affrontarlo?
Qualcuno, sbagliando, paragona il caso Rupnik, accusato di molestie, a quello di Caravaggio, omicida, i cui capolavori sono rimasti sempre nei luoghi sacri per cui sono stati commissionati. Ma non siamo più nel primo Seicento, quando le notizie viaggiavano lentamente e sottotraccia: oggi tutti sappiamo tutto subito e in dettaglio, che sia verità o fake news. Poi nel Seicento un omicidio nel contesto di una rissa rientrava in una sorta di “normalità umana” comprensibile, mentre oggi una storia di ripetute molestie negli stessi anni in cui l’artista realizzava grandi opere di soggetto sacro per santuari come Lourdes e Fatima parla di un cinismo profondamente offensivo.
Io non so come siano andate le cose, ma la percezione nella Chiesa è che Marko Rupnik sia colpevole, e il principio pastorale in ogni caso è quello enunciato da san Paolo riguardo alla carne venduta al mercato dopo essere stata offerta alle divinità pagane: pur riconoscendo che, dal momento che tali divinità neppure esistono e che il cristiano possa pertanto mangiare la carne di animali previamente sacrificate, l’Apostolo consiglia di non farlo, per evitare lo scandalo di chi nella comunità cristiana non riesca a fare questo ragionamento logico (1 Corinzi 8, 1-13).
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