Quando a Loreto Mussolini disse: prima gli italiani (quelli santi)

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Da decenni – almeno – la “questione lauretana” si consuma attorno alla Santa Casa, ed in particolare alle modalità del suo trasporto da Nazaret a Loreto. Ma c’è un altro tratto singolare nella storia di Loreto, meno noto: il ruolo di Mussolini nel “successo” del Santuario. A modo suo e per ragion di Stato.

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Trasportata in volo dagli angeli celesti, dai più prosaici Angeli comneni (un ramo della famiglia imperiale di Costantinopoli) o dai cavalieri Templari: da decenni le discussioni attorno alla Santa Casa di Loreto sembrano consumarsi più sulle modalità del suo trasporto da Nazaret alle Marche che non sulla sua autenticità. A questo proposito, infatti, numerose prove confermano l’originalità dell’abitazione che fu di Maria, di Giuseppe e di Gesù, nonché teatro dell’Annunciazione: fra le altre, la corrispondenza geologica delle pietre dell’edificio con la Terra Santa, l’impiego nella costruzione di un tipo di malta in uso in quella regione, la compatibilità di pollini e graffiti murari.

Diversi sono anche gli indizi che confermerebbero il viaggio miracoloso della Santa Casa da Nazaret, sebbene decisamente più dibattuti anche in seno alla comunità cattolica: i frequenti e repentini spostamenti (Loreto è, infatti, solo l’ultima tappa dell’itineranza della Santa Casa), l’atipica collocazione dell’edificio sulla pubblica strada e il singolare schiacciamento di un cespuglio sotto la struttura, soltanto per citarne alcuni. Dal canto suo, la Santa Sede, nella persona di papa Pio IX, riconosce che la Santa Casa, costruita in Galilea, è stata trasportata ac divinitus, divinamente, a Loreto alla fine del XIII secolo. Dove si offre come un’attrattiva di indubbio richiamo per i pellegrini italiani, dividendo il proprio successo con i maggiori santuari europei.

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Almeno fino all’intervento – dettato da ragioni decisamente ambivalenti – di Benito Mussolini. In obbedienza all’autarchia del Regime e ai limiti imposti all’espatrio degli italiani, nel 1937 il Duce frena i pellegrinaggi all’estero, indirizzandoli piuttosto verso i santuari nostrani. «Preferire il prodotto nazionale anche e soprattutto nei miracoli» è l’indicazione «in grosse lettere a lapis blu» – di Benito Mussolini in un suo appunto riservato del 1937 (Emma Fattorini, Italia devota, Carocci, 2012). Un “prima gli italiani” ante litteram. Anche nella santità, a cominciare da san Francesco d’Assisi, «il più santo dei santi al Cristianesimo e all’umanità». Simbolo di quel «popolo di poeti di artisti di eroi / di santi di pensatori di scienziati / di navigatori di trasmigratori», come recitano il giusto orgoglio e la strumentalizzazione politica dal travertino del Palazzo della Civiltà Italiana all’Eur.

È in questi stessi anni che la storia del santuario di Loreto vive una svolta, grazie all’intuizione del principe Enzo di Napoli Rampolla, segretario generale dell’Unitalsi. Votata – per definizione – al “trasporto degli ammalati a Lourdes e ai santuari internazionali”, per non inimicarsi il Regime dal 1937 l’Unitalsi si attrezza per trasportarli, invece, a Loreto, dando inizio alla lunga storia dei “treni bianchi” della fede e della speranza. Complice, si dice, la provvidenziale foratura di una gomma dell’auto di Enzo di Napoli Rampolla nei pressi di un’indicazione per il santuario mariano delle Marche. E della volontà di fare, di necessità, virtù.

Curiosamente, la storia di Mussolini sarà legata al Santuario marchigiano fino al proprio cruento epilogo. In quel Piazzale Loreto che a Milano conserva memoria dell’edificazione di una chiesa voluta da Carlo Borromeo, edificata dal nipote Federico e infine distrutta per fare spazio alla piazza. La stessa nella quale avrebbe in seguito trovato posto il celebre benzinaio.

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