Nella privatizzazione della guerra, gli unici “buoni” sono, sempre, le vittime civili. Intervista a Fabio Armao

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In Ucraina l’inutile strage è utilissima ai poteri forti internazionali. Che contano obiettivi conseguiti e falliti, mentre il popolo ucraino e quello russo contano i propri morti. È la “privatizzazione della guerra”, che segue logiche di potere e di mercato. Dall’ucraino Battaglione Azov al russo Gruppo Wagner, distinguere la violenza è quasi impossibile. Il rischio? Che le guerre civili globali permanenti diventino una condizione ordinaria per milioni di esseri umani. Fino ad annientare l’idea stessa di cittadinanza. Intervista a Fabio Armao.


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Fabio Armao

Siamo di fronte ad una inutile strage? Umanamente lo è di certo, come denunciava Benedetto XV nel pieno della prima guerra mondiale. Ma la strage è utilissima ai poteri forti della politica internazionale. L’aggressione della Russia all’Ucraina è un fatto tragico di cui il presidente Vladimir Putin porta l’enorme responsabilità. D’altro canto, l’utile strage è alimentata anche dagli interessi e dalle retoriche dell’Occidente, da ambizioni che appartengono soprattutto, ma non soltanto, agli Stati Uniti. Rafforzando – per quanto, è da vedere – la loro posizione di preminenza e confermando – per quanto, è da vedere – la subalternità dell’Europa.

Si è più volte detto di una guerra mondiale combattuta a pezzi, e su entrambi i fronti il riferimento alla storia, in particolare alla seconda guerra mondiale, è ricorrente. Eppure la guerra è cambiata da tempo. Agli eserciti nazionali si è sostituita la mobilitazione di mercenari e volontari di vario genere. Milizie private, gruppi criminali e terroristi la cui attività è promossa da tutte le istituzioni nazionali, Russia, Stati Uniti e Ucraina compresi. Raggruppamenti che hanno talvolta una base ideologica e religiosa forte, spesso riconducibile all’estrema destra, al neopaganesimo o ad interpretazioni devianti del cristianesimo. Milizie guidate da personaggi tanto carismatici quanto criminali, secondo logiche di potere e di mercato. È la “privatizzazione” della guerra.

Ne parlo con il prof. Fabio Armao, docente di Relazioni internazionali presso il Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio dell’Università degli Studi di Torino. Visiting Professor alla Cornell University, è membro fondatore dell’istituto di ricerca indipendente Turin World Affairs Institute (T.wai). Fra i suoi temi di ricerca, le guerre internazionali, la privatizzazione delle guerre e il crimine organizzato transnazionale.

Prof. Armao, la guerra condotta dalla Russia in Ucraina sembra averci fatto riscoprire un mondo diviso in blocchi. Nel suo intervento all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, il presidente Mattarella ha fatto riferimento ad un «arretramento della storia all’epoca delle politiche di potenza», alla «contrapposizione di un popolo – mascherato, talvolta, sotto l’espressione “interesse nazionale” – contro un altro», a logiche di «imperialismo e neo-colonialismo». Discorso applicabile alla sanguinosa aggressione russa all’Ucraina, ma anche ad altri poteri – Stati Uniti e Cina in testa – che pretendono di imporre «una gerarchia tra le nazioni a vantaggio di quella militarmente più forte», per dirla con le parole di Mattarella. Come si colloca la guerra in Ucraina in questo contesto mondiale e – se e come – può cambiarlo?

Se mi è consentita una breve premessa “metodologica”, vorrei dire che ho sempre delle perplessità ad accettare delle ricostruzioni cicliche della storia. Preferisco parlare, piuttosto, di “spirale della storia”, ad indicare che le comunità umane tendono a riprodurre, in effetti, modelli del passato – c’è una certa coazione a ripetere, soprattutto gli errori – ma in forma comunque nuova. Non si tratta di una differenza irrisoria. Il contesto di riferimento è completamente diverso, sia se si guarda alla dimensione dello Stato, sia se si considera il livello del sistema globale.

Sono completamente mutati i fondamenti di legittimità dei soggetti politici che ricorrono alla guerra: la Russia di Putin è un regime basato su una ristretta cerchia di oligarchi, alti burocrati e ufficiali delle forze armate, uniti dal comune intento di depredare il proprio Paese di tutte le risorse disponibili a fini di arricchimento personale per poi, come ulteriore sfregio, investire i propri profitti illeciti all’estero o occultarli nei paradisi fiscali. Assecondare, come avviene troppo spesso anche sui media occidentali, la narrazione di un Paese, la Russia, frustrato nelle proprie ambizioni imperiali, che avrebbe trovato in Putin il suo nuovo “zar” – ma lo zarismo si basava comunque sul principio monarchico, in un’epoca nella quale la monarchia rappresentava ancora la forma di governo maggiormente diffusa tra le grandi potenze – oltre ad essere alquanto fuorviante, rischia di ritorcersi contro di noi, nella forma ricorrente di profezia che si auto-adempie.

Si tratta, insomma, di un regime tutt’altro che ottocentesco e, oltretutto, perfettamente integrato nei processi di globalizzazione finanziaria che contraddistinguono l’attuale fase di sviluppo del capitalismo – ed è questa la seconda dimensione cui facevo riferimento. Lo dimostra il fatto che Europa e Stati Uniti non hanno avuto alcuna difficoltà a adottare sanzioni economiche, anche ad personam, dirette a congelare i beni e gli asset finanziari degli oligarchi e dei loro familiari; con i quali, peraltro, non si erano in precedenza mai fatti scrupolo di collaborare, pur sapendo delle origini criminogene delle loro ricchezze, arrivando persino a concedere loro passaporti europei grazie alle politiche di Golden Visas di Stati membri, come Malta.

Anche l’impiego massiccio di apparati bellici tradizionali – truppe di terra, carri armati, marina e aviazione – non deve trarci in inganno e farci pensare che si sia tornati alle guerre novecentesche. L’aggressione di Putin all’Ucraina rappresenta l’apoteosi delle “nuove guerre” che hanno afflitto il mondo a partire dal crollo del muro di Berlino: si pensi al conflitto nella ex-Jugoslavia e al lungo assedio della città di Sarajevo, ma anche all’Afghanistan, all’Iraq, alla Siria, alla Libia, allo Yemen, per fare soltanto alcuni degli esempi più noti.

Io le ho definite “guerre civili globali permanenti” per la loro natura di conflitti interni agli Stati, in grado tuttavia di produrre ripercussioni a livello internazionale sia sul piano economico che su quello sociale e, soprattutto, di trasformarsi in una condizione ordinaria e permanente per milioni di esseri umani. L’accanimento con il quale i russi stanno procedendo alla distruzione sistematica delle città è il segno della volontà di estirpare la politica fin dalle sue radici e di rendere impossibile qualunque residua forma di convivenza: di annientare l’idea stessa di cittadinanza.

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Il popolo ucraino e quello russo contano i propri morti, Putin e Zelens’kyj gli obiettivi conseguiti e quelli falliti, mentre gli Stati Uniti di Biden sembrano i veri vincitori di questa guerra, tanto sul piano tattico che economico: rafforzamento della propria leadership in Occidente in termini politici e ideologici, nuovi acquirenti per i propri prodotti, Europa Occidentale sempre più dipendente dal punto di vista energetico, aumento generalizzato della spesa militare fra i membri Nato. Che Europa uscirà, invece, da questa guerra?

L’impressione, in effetti, è che gli Stati Uniti stiano cercando di recuperare il proprio ruolo di attori egemonici dell’attuale sistema internazionale, dopo i messaggi a dir poco contraddittori che erano stati lanciati durante l’amministrazione Trump e, soprattutto, dopo una gestione non proprio efficace delle guerre in Iraq e Afghanistan. La strategia adottata dal presidente Biden sembra determinata e coerente – fornitura di armi e addestramento, nonché di servizi di intelligence, evitando l’intervento diretto – e, al momento, supportata da tutto il Congresso. È da vedere, tuttavia, che cosa accadrebbe se la guerra dovesse protrarsi troppo a lungo – o se le elezioni di midterm dovessero avvantaggiare in misura significativa il partito repubblicano.

L’Europa di sicuro rischia comunque molto di più, dal momento che la guerra si combatte ai suoi confini e mette a repentaglio la sua stabilità economica. Sta pagando due grossi errori del passato: non essersi fatta alcuno scrupolo di colludere con quello che adesso è il nemico e avere accettato che al suo stesso interno, tra gli Stati membri, si derogasse ampiamente ai requisiti di democraticità previsti dai trattati. Mi riferisco, in particolare, alle derive illiberali di Paesi come l’Ungheria e la Polonia, dove questioni essenziali come i diritti civili e l’equilibrio dei poteri vengono da anni esplicitamente contestati.

Ancor di più che nel caso statunitense, in Europa il protrarsi del conflitto rischia di mandare in frantumi un’unità di intenti già alquanto precaria e di costringere in particolare Stati membri come Francia, Germania e Italia ad un crescente appiattimento sulle posizioni della Nato. Volendo essere positivi, bisogna sperare che questa drammatica contingenza spinga le istituzioni comunitarie a rivendicare con maggiore coraggio i propri valori fondativi e a procedere nella costruzione di un’Europa che sia infine anche politica e sociale, oltre che economica.

Battaglione Azov
Militanti del Battaglione Azov in Ucraina. Fonte: Al-Mayadeen.

È stato giustamente fatto notare, anche dal presidente Draghi, che, continuando a sostenere le esportazioni della Russia, l’Europa contribuisce indirettamente a finanziare oggi la guerra in Ucraina. Molta meno chiarezza è stata fatta, invece, sulle alternative: affidandoci a vecchi o nuovi partner energetici cosa rischiamo di finanziare domani, più o meno consapevolmente?

Un problema specifico dell’Italia è non aver fatto, nei decenni passati, alcuno sforzo di programmazione e differenziazione delle fonti energetiche. Il problema comune all’Occidente è quello di aver ritenuto che per garantirsi un flusso costante delle risorse naturali indispensabili al proprio sviluppo – il petrolio, certo, ma anche sempre di più le terre rare – le autocrazie offrissero, in fin dei conti, garanzie di stabilità maggiori rispetto a governi che avessero intrapreso lunghi e contrastati processi di democratizzazione, nascondendosi dietro la pretesa che il mercato sia neutro rispetto ai valori.

Di conseguenza, la ricerca di fonti energetiche alternative al gas russo ci costringe oggi a scendere a patti, il più delle volte, con regimi altrettanto esecrabili di quello putiniano. Personalmente, il caso che trovo davvero inaccettabile è quello dell’Egitto, il cui governo non ha mai avuto il coraggio di ammettere le responsabilità dei propri servizi nella tortura e nell’uccisione di Giulio Regeni.

Leggiamo dell’intervento dell’intelligence e dei servizi segreti Usa in Ucraina, dell’addestramento militare fornito dalla Gran Bretagna, della fornitura di armi ben prima del conflitto. Siamo sul confine sottile fra il prepararsi ad una guerra e il preparare la guerra?

Proverei a distinguere due aspetti. Il primo riguarda il confine, alquanto labile, tra l’appoggio esterno ad una guerra altrui e il coinvolgimento diretto. In prima battuta, si potrebbe dire che il discrimine fondamentale rimane l’invio o meno di proprie truppe sul campo di battaglia. Finché ci si limita ad inviare armi e addestratori, o si forniscono informazioni che permettono di individuare meglio i bersagli o anche “suggerimenti” strategici sulla disposizione e l’impiego delle truppe, non ci si può definire a tutti gli effetti belligeranti. Questo genere di “proiezione di potenza” sul campo nemico, che non è ancora guerra vera e propria, è ulteriormente facilitato oggi dall’esistenza di private military firms, società private in grado di fornire servizi anche di combattimento – mercenari – senza implicare formalmente i propri governi.

Di per sé, tra l’altro, non si tratta di una novità assoluta: cambiano semmai le forme, oggi più sofisticate – le corporation militari prendono il posto dei vecchi “consiglieri militari” – più che la sostanza.

Ma qui entra in gioco il secondo aspetto, che riguarda le strategie di comunicazione. Il Novecento “americano” ci aveva abituati alle covert action messe in atto dalla Cia. E la scoperta di questi episodi, che spesso prendevano la forma di vera e propria “guerra sporca”, è stata resa possibile da scoop giornalistici basati su informazioni ottenute da fonti anonime. Il caso più noto rimane quello dei Pentagon Papers, i documenti segreti sulla guerra del Vietnam pubblicati dal New York Times nel 1971, che rivelavano tra l’altro l’estensione dei bombardamenti al Laos e alla Cambogia.

Se ne riparla proprio in questi giorni, perché di nuovo il New York Times ha pubblicato delle notizie sul coinvolgimento dell’intelligence americana nell’uccisione di alcuni generali russi e nell’affondamento dell’ammiraglia della flotta russa Moskva, offrendo a Putin il destro per affermare che gli Usa sono di fatto già entrati in guerra. Ma, a ben vedere, il contesto appare del tutto diverso. Non solo per il ruolo assunto ormai dai social media nel diffondere notizie, vere o false che siano, ma perché spesso sono gli stessi leader politici a fare a gara a vantarsi del contributo che il proprio governo sta offrendo alla causa ucraina, facendo sorgere il dubbio – legittimo – che la guerra sia diventata anche oggetto di un marketing politico interno: un mezzo per distrarre l’opinione pubblica dalla crisi del proprio esecutivo, ad esempio nel caso del britannico Boris Johnson, o per risalire nei sondaggi in vista delle elezioni di midterm, nel caso del presidente americano Biden.

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La guerra è cambiata, ma la narrazione che ne viene data sembra ferma a decenni, se non a secoli fa: eserciti nazionali che si scontrano, parate militari, opposti patriottismi, schieramenti ben definiti, bene contro male. La guerra, invece, è ormai “privatizzata”. Segue logiche di potere e di mercato. Che cosa significa e con quali conseguenze?

Sono assolutamente d’accordo e lo accennavo già prima: il mondo post-bipolare ha finito col produrre una condizione di guerra civile globale permanente. Questo nuovo genere di guerra è combattuto da una molteplicità di attori non statali della violenza, che rappresentano, a ben vedere, il prodotto dell’adattamento di un medesimo modello ai differenti contesti locali e che, per semplicità, possiamo riassumere in tre categorie.

La prima, gruppi che pongono la violenza al servizio di una causa – la nazione, la fede, l’etnia – e, di conseguenza, fanno appello in via preliminare ai sentimenti identitari dei propri uomini. In questa fattispecie possiamo far rientrare le forze armate, le forze armate irregolari, le milizie, i movimenti guerriglieri, i ribelli o insorgenti, le organizzazioni terroristiche.

La seconda, gruppi che privilegiano il criterio dell’utilità economica e mantengono con i propri uomini, oltre che con i propri clienti, relazioni di tipo contrattuale. Ad essi spetta oggi il compito di incarnare, nella forma più pura, la leadership militare di tipo manageriale. Il loro modello ideale rimane la private military corporation. Ma anche alcune organizzazioni a carattere mafioso o dedite ai traffici illegali – di droga, di armi o di esseri umani – possono dimostrarsi del tutto adeguate allo scopo.

Terza categoria, gruppi che si rivelano nei fatti “alternativi”, proponendo impieghi della violenza al di fuori del mainstream tracciato dalle due categorie precedenti. Essi si presentano in genere come unità di piccole dimensioni e con risorse limitate, ma al tempo stesso capaci di offrire una lettura originale, nella sua brutalità, del repertorio della violenza. Il loro elenco comprende marchi quali banditi e street gang, gruppi di autodifesa e paramilitari, vigilantes e warlord.

Ciascuno di questi gruppi – tra i quali, a volte, può rivelarsi difficile tracciare empiricamente delle chiare linee di demarcazione – propone un’interpretazione peculiare del concetto di professione militare, sviluppa autonomi modelli di reclutamento e di carriera, attribuisce un proprio specifico significato alla coesione intra-gruppo (lo “spirito di corpo”). Ma, ciò che qui più conta, instaura una relazione peculiare con l’ambiente urbano.

Vale anche la pena aggiungere che l’intero sistema capitalistico – in tutte le sue dimensioni, produttiva, commerciale e finanziaria – viene coinvolto in questo processo di privatizzazione della violenza. Con il risultato che, grazie al sistema delle partecipazioni azionarie palesi oppure occulte, risulta oggi possibile – almeno in teoria – ad una sola corporation e al suo consiglio di amministrazione concentrare nelle proprie mani un potere militare inimmaginabile persino ai tempi dei regimi totalitari: il potere di gestire la guerra in piena autonomia e in ogni sua fase, dal finanziamento alla messa in atto, mettendosi al servizio di chiunque sia in grado di pagare, ignorando del tutto la volontà delle opinioni pubbliche e rispondendo delle proprie azioni, semmai, soltanto agli azionisti – il cui principale se non unico interesse, però, sono i dividendi.

Gruppo Wagner
Gruppo Wagner. Fonte: Occrp.

Fra questi gruppi, due si sono imposti nella cronaca di queste settimane: il Battaglione Azov a favore dell’Ucraina e il Gruppo Wagner per la Russia. Sul Battaglione Azov, neonazista e suprematista bianco, è scritto in un report Ocse del 2016 dal titolo “Crimini di guerra delle forze armate e delle forze di sicurezza dell’Ucraina: torture e trattamenti disumani”. Vi si documentano sue uccisioni di massa di prigionieri, occultamento di cadaveri nelle fosse comuni, uso sistematico di tecniche di tortura fisica e psicologica. Sembra la cronaca di queste settimane. È un valido esempio di quanto diceva sulla privatizzazione della guerra?

Assolutamente sì. Entrambi gli esempi rientrano appieno nella tipologia di attori non statali della violenza appena delineata. Per quel che è dato saperne, il Battaglione Azov sembrerebbe rientrare di più nella prima categoria, il Gruppo Wagner nella seconda. Ma non dobbiamo dimenticare che, nella realtà, i confini tra l’una e l’altra categoria sono alquanto labili, tanto più se si considera che Azov nasce come gruppo paramilitare autonomo e non risulta comunque inquadrato formalmente nelle forze armate ucraine, mentre Wagner, pur essendo tutti gli effetti una compagnia militare privata, è fuor di dubbio che operi su mandato del governo russo.

Il fatto è che privatizzare la guerra, subappaltandone in tutto o in parte la condotta ad attori non statali, comporta un’accentuazione della delega della funzione militare e, di conseguenza e in pari misura, una rinuncia da parte delle istituzioni politiche alla propria prerogativa sia di dettare le linee strategiche del conflitto sia di verificarne la corretta applicazione.

Nella conduzione degli eventi bellici, essa ha già creato problemi di coordinamento, quando non veri e propri conflitti di competenze, tra le linee gerarchiche di comando: alla tradizionale concorrenza tra le diverse armi – Esercito, Aviazione e Marina – si è aggiunta adesso, infatti, quella tra queste e i manager delle corporation militari. La presenza nello stesso teatro di guerra di soldati e mercenari – con funzioni, responsabilità e regole di ingaggio diverse – ha, inoltre, effetti negativi sulla coesione e sul morale delle truppe.

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Non solo: privatizzare la guerra vuol dire anche far perdere le tracce delle responsabilità degli eventuali crimini commessi. Basti ricordare il caso delle torture inflitte ai prigionieri del carcere iracheno di Abu Ghraib, emerso nel 2004 e per il quale sono finiti sotto processo e condannati, seppure a pene irrisorie, i membri delle forze armate americane coinvolti, mentre gli “specialisti di interrogatori” della Caci International non sono stati nemmeno incriminati.

Un altro esempio, sul fronte opposto, è il Gruppo Wagner. Anche in questo caso, neonazismo e neopaganesimo slavo si accompagnano alla violenza delle armi, e non solo. In questi giorni si è detto dell’uso indiscriminato della forza sui civili in Mali, ma anche della cattura di un membro del gruppo militare da parte di Jama’at Nusrat al-Islam wa al-Muslimeen, formazione jihadista affiliata ad al-Qaeda. Due domande: la presenza del Gruppo Wagner in Nordafrica è in qualche modo collegata agli eventi in Europa Orientale e quanto è difficile, oggi più che mai, dividere gli schieramenti in “buoni” e “cattivi”?

Anche qui può essere utile un breve chiarimento. Gli attori non statali della violenza hanno comunque bisogno di garantire lo spirito di corpo delle proprie unità. Per fare questo si affidano a subculture di tipo clanico, che fanno appello a simbolismi e riti in grado di rafforzare il senso di identità e di appartenenza.

Nel corso delle mie ricerche ho potuto constatare quanto questi aspetti – che a volte vengono liquidati come mero folklore – si dimostrino invece essenziali persino in gruppi molto meno strutturati dei mercenari di Wagner, come le gang giovanili. Bene: tali subculture sono capaci di fornire agli affiliati un sistema di credenze e di regole, una visione del mondo che li pone al centro dell’universo e al di sopra degli altri, non relegandoli, per una volta, ai margini e al fondo della scala sociale. E le costanti di queste subculture sono sempre la violenza, il maschilismo e la religiosità.

Tornando al Gruppo Wagner, il fatto stesso che abbia sviluppato in forma così sofisticata la propria natura clanica, spinge a ritenere che difficilmente rispetteranno le regole (i “codici d’onore”) che dobbiamo invece assumere che valgano, fino a prova contraria, per le forze armate regolari. Questo, purtroppo, favorisce gli abusi sui civili: dai massacri ingiustificati agli stupri delle donne – alimentati ulteriormente, come accennavo prima, dal senso di impunità.

Per quanto riguarda il suo impiego in diversi teatri di guerra, l’unica logica che li collega sono gli interessi di volta in volta espressi dal committente, nel loro caso il presidente Putin, che li ha utilizzati tutte le volte che ha ritenuto fosse meglio non comparire in prima persona: in Crimea e Donbass, prima; in Siria, poi e, oggi, di nuovo in Ucraina; sapendo oltretutto di poter contare su un livello di “professionalità” e persino di fedeltà superiore a quella che stanno dimostrando a volte le sue stesse forze armate.

In questo contesto, gli unici, autentici, “buoni” sono, sempre, le vittime civili. Da lì in poi, più che disquisire sulla giustizia o meno di una causa, l’unico metro di giudizio che abbiamo ritengo sia quello – politologico e non etico – della legittimità di una guerra. E questa si può misurare soltanto a partire dalle motivazioni dei soldati e dal consenso di cui godono presso la popolazione civile, unito alla discriminante di mettere a repentaglio la propria stessa vita e quella dei propri cari sul proprio suolo, e non fuori dai confini. L’invasione di uno spazio altrui denota in partenza un intento aggressivo.

Ci sono poi i volontari. L’Italia ne conta svariati su ambo i fronti. Storie anche molto diverse fra loro. Qui i motivi ideologici e personali sembrano più forti. Mi colpiva la storia di un italiano, morto in Ucraina nelle scorse settimane, che aveva scelto di combattere insieme ai filo-russi del Donbass: collocato ideologicamente a sinistra, alcuni problemi con la giustizia, poi l’adozione di un nome di battaglia ispirato ad un partigiano della seconda guerra mondiale e la partenza. Sosteneva che a motivarlo fosse il ricordo delle violenze inferte dai fascisti alla sua famiglia. E combatteva per la Russia. Anche in questo caso, ne esce l’immagine di una guerra tutt’altro che lineare.

Tutto sommato, anche questi esempi rimandano al fenomeno della privatizzazione della guerra, che qui assume una forma anche intima, personale, sulla quale penso sia impossibile esprimere un giudizio generale. Provo comunque a fornire un qualche criterio di orientamento.

Escludendo coloro che vanno in guerra per soldi o per un qualche senso d’avventura – malinteso o patologico – o, ancora, per fuggire dal proprio passato, rimane soltanto chi sceglie volontariamente di andare a combattere per una causa non sua, nel senso che non è immediatamente riconducibile alla difesa del proprio territorio o alla salvaguardia della stessa esistenza propria e dei propri cari.

In questo caso, certo, entra in gioco anche una dimensione ideologica che può essere veicolata o indotta – magari attraverso una forma più o meno radicale di indottrinamento – da un partito o da un movimento. Penso a due esempi per molti versi agli antipodi: le Brigate internazionali ai tempi della guerra civile spagnola e i foreign fighters islamici odierni. Nell’esempio che lei fa – ma a me vengono in mente anche i casi di ragazzi e ragazze che hanno scelto di rischiare la vita al fianco dei curdi contro l’Isis – penso che sull’adesione ad un’ideologia prevalga la volontà individuale di cercare di rimediare a un torto, di fare giustizia.

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