La lettera Placuit Deo della Congregazione per la dottrina della fede rievoca pelagianesimo e gnosticismo, correnti ereticali che si credevano ormai scomparse. In realtà una preoccupazione di Bergoglio ancora prima di diventare pontefice.
A riproporre questioni antiche – ma evidentemente mai del tutto risolte – sta pensando in queste ore la lettera Placuit Deo (Piacque a Dio) che la Congregazione per la dottrina della fede ha indirizzato ai vescovi della Chiesa cattolica in merito ad «alcuni aspetti della salvezza cristiana». I riferimenti a pelagianesimo e gnosticismo, due vecchi filoni ereticali – in particolare il primo, condannato nel V secolo – si stanno moltiplicando sulla stampa, anche grazie alla disponibilità di enciclopedie prêt-à-consulter.
Nulla di male, ma a chiarire il senso di denominazioni che forse si ritenevano ormai scomparse ha pensato la stessa Congregazione. «Il Santo Padre Francesco, nel suo magistero ordinario, ha fatto spesso riferimento a due tendenze che rappresentano le due deviazioni appena accennate e che assomigliano in taluni aspetti a due antiche eresie, il pelagianesimo e lo gnosticismo. […] È chiaro, d’altronde, che la comparazione con le eresie pelagiana e gnostica intende solo evocare dei tratti generali comuni, senza entrare in giudizi sull’esatta natura degli antichi errori. Grande è, infatti, la differenza tra il contesto storico odierno secolarizzato e quello dei primi secoli cristiani, in cui queste eresie sono nate. Tuttavia, in quanto lo gnosticismo e il pelagianesimo rappresentano pericoli perenni di fraintendimento della fede biblica, è possibile trovare una certa familiarità con i movimenti odierni appena descritti» (Placuit Deo, n. 3).
Nel rievocare gnosticismo e pelagianesimo, infatti, appare evidente in Francesco l’intenzione di smarcarsi da una precisa classificazione teologica, per un’accezione decisamente più critica e attualizzante. Nel V secolo, al tempo del monaco britannico Pelagio, all’interno della Chiesa la discussione – che noi conosciamo per lo più attraverso la condanna che giunge dal contemporaneo Agostino d’Ippona – si consuma per lo più attorno alla natura del peccato originale, alla sua trasmissione ai singoli uomini, alla capacità dell’uomo di distinguere e attuare il bene o il male, al ruolo del battesimo e, conseguentemente, al reale peso (e bisogno) di grazia, misericordia e redenzione.
Cosa rimane, oggi, di tutto questo? Uno dei maggiori peccati della nostra epoca: l’efficientismo. «Il pelagianesimo ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte», spiegava Francesco due anni e mezzo fa a Firenze, in occasione dell’incontro con i rappresentanti del V Convegno nazionale della Chiesa italiana. In questo senso, non sfuggono i numerosi riferimenti del Pontefice al rischio – anzi, alla «tentazione» – della Chiesa di divenire una ONG. Un pragmatismo nel quale le “buone” azioni e i “buoni” progetti bastano a sé stessi e alla salvezza dell’uomo.
Non solo. Il pelagianesimo «spesso ci porta pure ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività. La norma dà al pelagiano la sicurezza di sentirsi superiore, di avere un orientamento preciso». Si tratta dei tanti «conservatorismi e fondamentalismi» spiccioli e rassicuranti, in ultima analisi farisaici, con i quali l’uomo pretenderebbe di essere in credito con Dio e i fratelli: agire da cristiano tanto da meritarsi la salvezza, anche senza la grazia del Signore. Un «pelagianesimo dei pii» dal quale metteva in guardia, nel lontano 1986, anche il card. Ratzinger. «Essi – affermava l’allora cardinale in un corso di esercizi spirituali ai membri di Comunione e Liberazione – non vogliono avere nessun perdono e in genere nessun vero dono di Dio. Essi vogliono essere in ordine: non perdòno, ma giusta ricompensa. Vorrebbero non speranza, ma sicurezza. Con un duro rigorismo di esercizi religiosi, con preghiere e azioni, essi vogliono procurarsi un diritto alla beatitudine. Manca loro l’umiltà essenziale per ogni amore, l’umiltà di ricevere doni a di là del nostro agire e meritare» (Guardare Cristo. Esercizi di fede, speranza e carità, Jaca Book, 2009).
Più complesso è ripercorrere la storia dello gnosticismo all’interno del quale nel corso dei secoli sono confluite correnti fra loro diverse, ma accomunate da un approccio sostanzialmente dualistico (spirito e materia), spiritualistico e misticheggiante. «Un certo neo-gnosticismo, dal canto suo, presenta una salvezza meramente interiore, rinchiusa nel soggettivismo. Essa consiste nell’elevarsi con l’intelletto al di là della carne di Gesù» (Placuit Deo, n. 3). Dal Cristo rivoluzionario al mero simbolo spirituale. Il Cristianesimo diviene una corrente di pensiero, una cultura, e non più una persona da incontrare. Il risultato – sottolineava Francesco a pochi mesi dalla sua elezione, nel giugno 2013 – è un Cristianesimo fluido, propugnato da “cristiani light” che «invece di amare la roccia, amano le parole belle, le cose belle» e si rivolgono a «un “dio spray”, un “dio personale”».
Al pari del pelagianesimo, come si vede, lo gnosticismo concede molto all’individualismo, ridimensionando – quando non negando – la carne di Cristo e la salvezza che da esso solo proviene. In considerazione dell’intimo legame fra Cristo e gli ultimi, ne consegue anche il pericolo, per dirla nuovamente con le parole di Francesco, di «confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza della carne del fratello». Progressismo o tradizionalismo, in questo, pari sono.
In realtà, la rievocazione di pelagianesimo e gnosticismo con Francesco viene da più lontano. E non soltanto dall’esortazione apostolica Evangelii gaudium, nella quale le due correnti vengono poste in relazione con la mondanità spirituale e con la pretesa di “dominare lo spazio della Chiesa” (n. 94). L’11 maggio 2009, durante la Messa di apertura della 97a Assemblea generale della Conferenza episcopale argentina, da arcivescovo di Buenos Aires il card. Jorge Mario Bergoglio fa già riferimento a gnosticismo e pelagianesimo in un’omelia significativamente incentrata sulla necessità di liberare il ministero episcopale e sacerdotale dalla mondanizzazione. «Lasciamoci introdurre [dallo Spirito Santo] nel Mistero e lasciamoci inviare da Lui come testimoni, in modo tale da non configurarci come una Chiesa gnostica o una Chiesa autoreferenziale. E che attraverso questo cammino possiamo raggiungere la meta senza prendere scorciatoie negoziando con la “prudenza” del mondo, la “prudenza” nata dai compromessi con la ricchezza, con la vanità e con l’orgoglio. Il nostro popolo fedele ci chiede pastori, testimoni del Mistero, inviati per annunciare Gesù Cristo». Due anni dopo, il 7 novembre 2011, Bergoglio interviene sullo stesso tema commentando il passo evangelico delle nozze di Cana nella sua ultima omelia da presidente della Conferenza episcopale argentina. «Non c’è spazio per nessun tipo di gnosticismo né di pelagianesimo “eroici”. Tutto è grazia, grazia tangibile versata per amore».
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