Natale e il dovere della felicità

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Per Natale non auguriamoci di essere felici, ma granelli in un ingranaggio.

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Aldous Huxley lo aveva scritto già nel 1932: «La felicità universale mantiene in ordine gli ingranaggi».

Ci prova il presidente venezuelano Nicolás Maduro, diventato “virale” sui social per i balletti improvvisati sulla musica delle proprie dichiarazioni remixate. Danzare sulle proprie parole potrebbe essere l’ultimo emblema del ripiegamento individualistico e ossessivo su di sé, ma l’effetto in questo caso rasenta la comicità involontaria.

Don’t worry, be happy, per citare Bobby McFerrin. Ballate finché avete energia in corpo, è il consiglio di Maduro ai venezuelani. Poco importa del dispiegamento militare statunitense nel Mar dei Caraibi o delle tensioni tra Caracas e Washington, per non parlare delle molteplici crisi interne: in Venezuela è Natale dal 1° ottobre scorso, per decreto dello Stato. Una strategia adottata più volte dal regime negli ultimi anni, «per l’economia, per la cultura, per la gioia, per la felicità». Anzi, felicità e gioia sono un «diritto» da «difendere» a norma di legge.

Facile e scontato evocare il panem et circenses della Roma di Giovenale. Ma siamo sicuri che valga solo per un regime caraibico qualunque?

Il Natale, celebrazione del mistero dell’Incarnazione, sembra oggi smarrirsi ben più vicino a noi, nel rumore di fondo di canzoni ossessive, vetrine abbaglianti e acquisti compulsivi. Il consumismo ha occupato lo spazio del silenzio e dell’attesa, trasformando un tempo di raccoglimento in una stagione di eccessi. Il Bambino che nulla ha ma tutto possiede è solo un dettaglio nelle società che tutto hanno ma nulla possiedono.

Può sembrare banale ricordarlo, ma la banalità fa parte del gioco. Felicità promessa, venduta, perfino imposta. Una nuova età dell’oro è alle porte, forse come mai prima, sostiene qualcuno. Tanto si parla a sproposito di felicità e di pace, che la sensazione è che non sarà un tempo né felice né pacifico. E certo non di riconciliazione, quanto piuttosto di rabbia e di esclusione. Forte è il dubbio che non sarà l’oro a brillare.

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Eppure, proprio in questo scenario il Natale continua a parlare a chi è disposto ad ascoltare. «La felicità universale mantiene in ordine gli ingranaggi», si diceva. E lo stesso Huxley aggiungeva: «La verità e la bellezza non lo possono». Facciamo in modo, allora, che il vero e il bello inceppino gli ingranaggi del macchinario dentro al quale ci stiamo rinchiudendo.

Un macchinario che funziona sulla ripetizione, sull’efficienza, sull’apparenza: produce consenso, desideri standardizzati, false verità e bellezze addomesticate. Il vero e il bello introducono attrito.

Il vero inceppa il meccanismo perché smaschera. Sostenere la verità, ricercarla, perfino sostare nel dubbio, interrompe il ritmo accelerato con cui il mondo vorrebbe farci ingurgitare opinioni già confezionate. Il vero richiede tempo, ascolto, responsabilità. Costringe a fermarsi e a riconsiderare ciò che sembrava ovvio. In un sistema che vive di semplificazioni, la complessità del vero è una forma di resistenza.

Il bello, a sua volta, inceppa perché non attrae: convince. Non impone, non manipola, non promette vantaggi immediati. Il bello autentico sottrae alla logica della prestazione e del guadagno. Ci ricorda che esiste qualcosa che vale anche senza profitto, che è prezioso anche senza proprietà. Educa alla cura, non al consumo.

Quando vero e bello si incontrano, il loro effetto è ancora più radicale: aprono spazi di libertà interiore in cui l’individuo non è solo ingranaggio, ma coscienza. Non bloccano il mondo con la forza, ma lo rallentano dall’interno, come un granello di sabbia che rende evidente la fragilità dell’intero sistema. E in quell’inciampo rendono visibile la possibilità di un’altra direzione: più vera, più bella, più umana.

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