Devozione, celebrazione della bellezza, trasmissione di un messaggio, esaltazione del talento, dimostrazione del potere e della ricchezza dei committenti: sono innumerevoli le chiavi di lettura dell’arte sacra. Tanto più quando essa attinge al Natale o alla Settimana Santa, momenti cardine da cui trae senso la fede cristiana e culmine della religiosità, anche popolare. Testi sacri, simboli e riletture personali degli artisti si mescolano in dosi differenti in ogni opera, dando vita ad esiti e a composizioni nuovi.

La Passione di Gesù ha origine in alcuni momenti forti della sua vita e nello stile senza compromessi che ne caratterizza l’annuncio. Non è un caso che nel Vangelo secondo Giovanni la resurrezione di Lazzaro sia posta come l’ultimo miracolo che precede la Passione e morte di Cristo: è in quel momento che, di fronte ai suoi «molti segni», si giunge alla decisione che «sia meglio che muoia» (Gv 11,50). Nella teatrale Resurrezione di Lazzaro di Sebastiano del Piombo sono immortalati tutto il timore e la meraviglia con i quali è accolto il ritorno dell’amico di Gesù dalla tomba, nel faticoso riemergere da bende e legacci. In secondo piano gruppi di persone discutono animatamente l’episodio ed è immaginabile che fra loro vi siano anche quanti «andarono dai farisei e riferirono loro quel che Gesù aveva fatto».

Siamo all’antitesi della Passione, con palme e canti, ma anche un’incomprensione del senso della missione di Cristo che si rivelerà drammatica. Il dipinto di Tissot, a mezza strada fra arte e cinema (la cui invenzione è successiva di solo pochi anni), evoca atmosfere israelitiche e sa cogliere la caducità degli “Osanna!” gridati dalla folla, l’incostanza degli uomini e l’incapacità del mondo di tollerare oltremisura la verità.

Non c’è (solo) quella di Leonardo da Vinci: l’Ultima cena è un soggetto tanto celebre e praticato nell’arte da prestarsi ad innumerevoli rappresentazioni, con declinazioni anche contemporanee. Nella propria rilettura dell’episodio, il russo Nikolaj Nikolaevič Ge punta su dinamismo, luce e stati d’animo. La stanza è illuminata da una lampada posta a terra, che proietta lunghe ombre sulle pareti, restituendo un senso fatale all’ambientazione. Cristo è assorto nei propri pensieri, immerso nell’esperienza del tradimento, che come ricordano i Vangeli gli era noto in anticipo. Più esplicito è il coinvolgimento degli apostoli, che fissano una figura in ombra, all’ingresso, indistinguibile, colta nell’atto di indossare un mantello e di uscire: è Giuda. I volti di due degli apostoli riassumono l’arco delle emozioni dell’intero gruppo: il giovane Giovanni, a sinistra, osserva incredulo e addolorato la dipartita dell’Iscariota, incapace forse di comprenderne scelta e portata; Pietro, all’estrema destra, forte della propria età e del proprio temperamento, si protende sulla tavola e verso il traditore, in un impetuoso misto di sorpresa e indignazione.

Prete e pittore, scomparso nel 2015, a Köder bastano due personaggi, pane, vino e una bacinella per realizzare una delle rappresentazioni più evocative della lavanda dei piedi. Sono simbolismo e atteggiamenti a fare la differenza: Pietro è colto in un tentativo di rifiuto, ma che non può fare a meno di lasciarsi travolgere dall’amore del Maestro, e Cristo che quasi scompare nel servizio al prossimo, del quale ci viene restituita l’immagine del volto riflessa nell’acqua del catino: ristabilimento e redenzione dell’uomo ad immagine e somiglianza di Dio, nella quale anche Pietro può specchiarsi. Corpi che si intrecciano, a formare un solo corpo di Cristo, la Chiesa.

Al centro della tela di Bellini, povera nella sua estrema semplicità, è ritratto Cristo in preghiera, appoggiato ad una roccia come ad un inginocchiatoio, mentre un angelo diafano gli porge il calice del sacrificio. Nessuna traccia di ulivi in questo giardino spoglio, abitato soltanto da un albero morto. Anche l’acqua sembra immobile, con il fiato sospeso. Di vivo, nell’opprimente deserto della rappresentazione, ci sono soltanto gli apostoli, Cristo e, sullo sfondo, la turba venuta per arrestarlo. Ma di svegli, si badi, soltanto il Bene supremo e il male, sempre all’opera.

È fra le riletture più anticonformiste dell’arresto di Gesù. Sulla tela Carpi getta tutta la rabbia e la denuncia delle pagine più oscure dell’Italia e dell’Europa di metà Novecento. L’opera racconta una storia, anzitutto personale. Artista affermato, uomo sensibile alla fede, titolare della cattedra di pittura all’Accademia di Brera e autore di vetrate per il Duomo di Milano, nel gennaio 1944 Carpi viene denunciato da un collega per le sue origini ebraiche, ma soprattutto per il suo dichiarato anti-nazifascismo. Arrestato dai carabinieri di Brivio, è trasferito a San Vittore, poi deportato a Mauthausen e infine nel sotto-campo di concentramento Gusen I. Sarà fra i pochi sopravvissuti. Nel campo tiene un diario clandestino – il Diario di Gusen – e realizza dipinti su richiesta di alcuni dei suoi carcerieri e delle loro famiglie. Richieste assurde di un male che non riesce a comprendere neppure sé stesso.

Commissionata nel 1871 dal governo italiano, l’opera di Ciseri restituisce un’insolita prospettiva “dietro le quinte” dell’episodio evangelico dell’Ecce Homo. La contestualizzazione storica e l’abilità di Ciseri con la gestualità, la luce e le trasparenze danno grande autenticità alla scena. La composizione si regge sulla contrapposizione fra l’attesa dell’interno – esemplificata dall’atteggiamento quasi annoiato delle guardie e della corte e dai cattivi presagi della moglie di Pilato, sulla destra, sorretta da una serva – e il tumulto della folla all’esterno, che riempie strade e terrazze. A fare da ponte fra questi due mondi è Pilato, al centro, che sembra sporgersi in un ultimo, politico, tentativo di comprendere le ragioni di tanto odio verso l’Uomo che ha di fronte. Che, in silenzio, contempla la farsa che lo avvolge.

Bruegel non delude e individuare Cristo nell’affollamento della composizione è quasi un’impresa. Oltre 150 personaggi si accalcano in un’infinità di micro-storie: un pellegrino in sosta (in basso), la corsa dei curiosi verso il Calvario (a destra), il carro con i ladroni condannati al supplizio (al centro), anacronisticamente con fra le mani un crocifisso e confortati da frati. A fatica spicca il gruppo in primo piano, con le pie donne e Giovanni che confortano Maria. Al centro, in un’indifferenza generale costruita ad arte, Gesù cade sotto il peso della croce. Soltanto un altro episodio sembra farvi riferimento: quello che, sulla sinistra, ha per protagonista Simone di Cirene, malamente strappato alla moglie dalle guardie. Distrazione di massa.

L’opera di Chagall ha guadagnato una rinnovata fama dopo che l’allora card. Bergoglio l’ha annoverata fra i suoi dipinti preferiti: «Non è crudele», anzi «dà speranza» e «il dolore viene mostrato con serietà. Penso che sia una delle cose più belle che lui abbia dipinto» (Ambrogetti-Rubin, El Jesuita, 2010). Eppure la Crocifissione bianca è tutt’altro che un’opera cristiana in senso stretto. E neppure ebraica. Dipinta a Parigi da un ebreo bielorusso dopo la Notte dei cristalli e nell’anno delle leggi razziali in Italia, la vera protagonista dell’opera di Chagall è la sofferenza del popolo ebraico: non la crocifissione del Figlio di Dio, bensì un emblema del martirio ebraico, esemplificato dalle storie che, come un vortice, circondano Cristo: l’incendio di una sinagoga, la fuga e la disperazione degli ebrei, i rotoli della Legge e la menorah (il candelabro a sette bracci), un villaggio in fiamme, le speranze effimere riposte nell’avanzata dell’Armata Rossa. Al centro, il silenzio di Dio: Gesù che sembra quasi dormire, come durante la tempesta sul lago di Tiberiade. Dov’è la «speranza» rinvenuta dal futuro Pontefice? Nella risposta che, dopo il silenzio, immancabilmente verrà da Dio, nella Resurrezione.

La maestria scenica ed emozionale di Caravaggio ci regala uno scorcio semplice eppure monumentale, a suo modo intramontabile, che ancora recentemente ha ispirato riadattamenti in chiave Covid. I pochi rimasti accanto a Gesù dopo la sua morte ne trasportano il corpo alla sepoltura: una tomba interrata in luogo del consueto sepolcro verticale, chiusa da una pietra. Attorno al corpo di Cristo si disperano la Madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala e si affannano Giovanni e Nicodemo, che insieme a Giuseppe d’Arimatea è una delle figure più affascinanti fra i discepoli “dell’ultima ora”. Il candore del corpo morto di Cristo si contrappone a vene, rughe e muscoli dei corpi vivi impegnati nello sforzo di sorreggerlo. Attorno a loro, per una volta, l’abituale oscurità caravaggesca ben si combina all’atmosfera della notte della Parascève, la vigilia del sabato. Un’opera che potrebbe degnamente preludere ai titoli di coda. Ma sarebbe un azzardo.

Il rischio, infatti, sarebbe quello di mettere precocemente la parola fine alla vicenda. «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre» (Gv 20,17). Rappresentazione antica e nulla affatto rara, sebbene non fra le più note della Resurrezione: il Cristo in abiti da custode del giardino (Gv 20,15), cappello a tesa larga e vanga, a simboleggiare lo scambio di persona della Maddalena. Nella composizione, realizzata a più mani, il tema naturalistico è vezzosamente portato all’estremo, con un profluvio di elementi vegetali e floreali, che accostano Gesù più all’ortolano di Gv 20,15 nelle versioni protestanti della Bibbia (Diodati, Nuova Diodati, Riveduta e Nuova Riveduta). Uniche concessioni all’iconografia tradizionale sono il mantello che riveste Cristo, i segni della Passione su mani e piedi, l’accorrere degli apostoli al sepolcro vuoto e le tre croci spoglie ancora ritte sul Golgota. Ma ormai Cristo è vivo. È Pasqua.
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1 commento su “Da Lazzaro alla croce. Le radici della Pasqua nell’arte”