La tentazione irlandese: essere cattolici senza Chiesa

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La Chiesa cattolica è in crisi, ma non il Cattolicesimo. Eppure è la stessa cosa. Il via libera irlandese all’aborto è il risultato di un pensiero comune: essere cattolici senza Chiesa, cristiani senza Cristo, credenti senza Dio. Ovvero quando la fede è ridotta a identità culturale.

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Alcuni lo hanno definito un passo in avanti della civiltà, altri l’ennesima tappa della corsa verso il baratro. Quel che è certo è che il via libera incassato dall’aborto in Irlanda – esteso di norma fino alla 12.ma settimana e in casi eccezionali anche oltre, cancellando l’equiparazione fra la vita della madre e quella del nascituro, che aveva regolato finora la legge – non è qualcosa che può essere ignorato. Perché in Irlanda – come altrove, del resto – una parte considerevole del mondo che si professa cattolico ha votato a favore dell’allentamento dei vincoli. Un evidente controsenso, ma che è sempre più comune.

Colpisce, in particolare, il successo fatto registrare dal fronte abortista fra le donne. Non la vittoria di un femminismo esplicitamente ateo, bensì l’affermazione di un certo femminismo “cristiano”, almeno a parole, portato a considerare la Chiesa come «uno degli ultimi grandi bastioni della misoginia». Anzi, un vero e proprio «impero della misoginia» che, insieme alle altre confessioni cristiane, ha reso Cristo stesso un simbolo della discriminazione verso le donne.

Il giudizio non è di un’attivista qualunque, ma dell’ex presidentessa irlandese Mary McAleese, presente a Roma nel febbraio scorso per la conferenza “Voices of Faith – Why Women Matter” (Voci della fede – Perché le donne contano). Comprensibile che l’evento, per la prima volta in cinque anni di vita, si sia svolto al di fuori dal Vaticano, dopo che il card. Kevin Farrell, prefetto del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita e, ironia della sorte, statunitense di origine irlandese, si è opposto alla partecipazione della McAleese.

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Difficoltà tutt’altro che confinate al piano politico. Da questo punto di vista le dichiarazioni della McAleese o la crisi diplomatica consumatasi nel 2011 fra Santa Sede ed Irlanda, con il richiamo del proprio nunzio da parte della prima e la chiusura dell’ambasciata in Vaticano da parte della seconda, risoltasi nel 2014, sono poca cosa. Ben più indicativo dell’aria che tira oggi nel “Paese Verde”, così come in molti altri, è infatti l’atteggiamento dei cattolici irlandesi.

Cattolica praticante, eppure attivista lgbt e a favore dell’ordinazione sacerdotale delle donne, Mary McAleese, eletta presidentessa nel 1997 con il 58,7% dei voti e riconfermata “d’ufficio” nel 2004 senza candidati avversari, incarna alla perfezione il clima che si respira oggi in Irlanda. Lo stesso che ha deciso il risultato del referendum di venerdì e che a Dublino attende Francesco il 25 e 26 agosto prossimi in occasione dell’Incontro mondiale delle famiglie.

Secondo il censimento svoltosi nel 2016 in Irlanda la Chiesa cattolica contava quell’anno 3,7 milioni di fedeli, pari al 78,3% del totale della popolazione, in calo del 5% rispetto al 2011. Percentuali che sulla carta qualificano ancora l’Irlanda come uno dei Paesi europei più cattolici, ma che nel maggio 2015 non hanno impedito l’approvazione del matrimonio fra persone dello stesso stesso (a favore si è espresso il 62,1% degli irlandesi). Una quota di irlandesi “disallineati” che in 3 anni è cresciuta, superando il 66% in quest’ultimo referendum.

Difficile non pensare che questa situazione sia anche il prodotto della serie di scandali sessuali, economici e politici – veri o presunti – che negli ultimi anni hanno scosso l’isola, in gran parte accomunati da coperture, che hanno ridimensionamento l’affezione degli irlandesi nei conforti della Chiesa cattolica. Mettendola, una volta di più, di fronte all’evidente incapacità di fare presa sull’opinione pubblica. Beninteso: non per una ricerca di consenso, ma per riaffermare la verità. Qualcosa di simile a quanto accade in Cile, dove il 70% dei cittadini si professa cattolico eppure negli ultimi decenni la reale partecipazione alla vita della ecclesiale ha subito un tracollo che neppure la visita di Francesco ha saputo scuotere. Senza considerare che, nonostante le dimissioni in blocco dei vescovi cileni, il caso Karadima-Barros non è ancora giunto ad un epilogo.

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Che sia self-referential oppure ensimismada, agli occhi di molti la Chiesa appare più impegnata ad occultare piccole e grandi manovre che ad aprirsi coraggiosamente all’evangelizzazione. Vale a dire l’esatto contrario di quanto ricercato da papa Francesco e da gran parte della stessa Chiesa. Anche per questo assume un’importanza ancora maggiore agire sul piano della comunicazione. Proprio in questo campo alcune settimane fa si era vociferato – per il momento senza seguito – della possibilità di trovare il successore di mons. Dario Edoardo Viganò in mons. Paul Tighe.

Irlandese, indicato in passato come il “guru” della comunicazione di papa Francesco – per inciso, prima dell’avvento di mons. Viganò – mons. Tighe è da più parti riconosciuto come disponibile, genuino e inaspettatamente “accessibile”, non soltanto dal punto di vista tecnologico, ma soprattutto umano. Caratteristiche importanti, tenendo conto di come gli aspetti istituzionali della riforma dei media vaticani non possono porre in ombra l’importanza della gestione umana dell’informazione, in particolare nei momenti più difficili che la Chiesa è chiamata ad affrontare.

Eppure nell’esito del referendum irlandese c’è di più. Lo scollamento fra quanto professato dai fedeli e l’effettiva adesione ai princìpi della Chiesa, se è comune a gran parte delle società occidentali, stupisce ancor più in un Paese nel quale l’appartenenza al Cattolicesimo era – e in parte continua ad essere – un imprescindibile tratto identitario. Contro ogni evidenza, proprio questo potrebbe costituire una parte del problema.

In tal senso, acquista nuovo significato quanto espresso nel 1975 da Paolo VI nella Evangelii nuntiandi. «Il Vangelo, e quindi l’evangelizzazione, non si identificano certo con la cultura, e sono indipendenti rispetto a tutte le culture», scrisse allora il Pontefice. «Indipendenti di fronte alle culture, il Vangelo e l’evangelizzazione non sono necessariamente incompatibili con esse, ma capaci di impregnarle tutte, senza asservirsi ad alcuna».

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Facendo del crocifisso una tradizione, del presepe un’usanza e della fede un piatto tipico. In ciò non aiuta la tendenza – sostenuta da opposte strumentalizzazioni – a contrapporre i temi della bioetica, dall’aborto all’eutanasia, ad argomenti ritenuti di maggiore urgenza (o di minore valore ecclesiale), come le migrazioni. Che rappresentano, invece, lati di una stessa medaglia e uno dei valori fondamentali del Cristianesimo: la difesa della vita.

Pena la contraddizione di certi richiami a tradizioni, identità e simboli religiosi che pretendono di convivere con il rifiuto dell’accoglienza. Accoglienza tanto di chi è in viaggio per salvare la propria vita quanto di chi è in cammino per venire al mondo.

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