Santa Dinfna. Così sconosciuta, così moderna

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Ci sono sante le cui storie sembrano sottratte alla leggenda ed altre che sembrano tolte «dalla porta accanto». La vita di santa Dinfna – tra violenze familiari, malattia mentale ed esilio – le rappresenta entrambe. La sua memoria ricorre il 30 maggio, ma non aspettatevi di trovarla sul calendario.

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Fra le sante a ragione oggi ritenute più “moderne” è spesso ricordata Giuseppina Bakhita, giovane sudanese vissuta fra Otto e Novecento, vittima della schiavitù – si direbbe della tratta – in seguito religiosa della congregazione delle Figlie della Carità e infine canonizzata da Giovanni Paolo II il 1º ottobre 2000.

Bisogna invece andare indietro di 1.300 anni, all’Irlanda del VII secolo, per incontrare la storia di una santa quasi sconosciuta, che dal medioevo racconta di una straordinaria modernità. La sua agiografia, composta nel Duecento, narra di una giovane ragazza, Dinfna, figlia del re Damon, pagano, e della sua consorte, cristiana. In seguito alla morte prematura della moglie, il sovrano mostra segni di squilibrio sempre più gravi, fino ad avanzare mire incestuose sulla stessa figlia, all’epoca adolescente.

Dinfna, battezzata in segreto mentre la madre era ancora in vita, confida le proprie inquietudini al confessore, Gerebernus, che decide di allontanarla dal padre, agevolandone la fuga dall’Irlanda verso le coste dell’attuale Belgio. È a Geel, nei pressi di Anversa, che i due vengono raggiunti dal sovrano irlandese. Il primo a farne le spese è il sacerdote, al quale presto si aggiunge Dinfna, che muore vergine e martire, colpita da una violenza che secoli dopo, in circostanze così diverse eppure così simili, avrebbe ucciso Maria Goretti. Ancora oggi i dintorni di Geel conservano il ricordo della sepoltura di Dinfna e Gerebernus, in semplici sarcofaghi bianchi di epoca preromanica, oltre a quelle che si dicono essere le reliquie della giovane santa, mentre i resti del sacerdote sarebbero conservati a Xanten, in Germania. Il Martirologio Romano celebra la memoria di santa Dinfna il 30 maggio.

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Nella vita di Dinfna confluiscono violenze familiari, malattia mentale ed esilio. Un trinomio di straordinaria attualità, in una società che sempre più vorrebbe «sbarazzarsi dei malati perché diventano un peso economico insostenibile in un tempo di crisi». Da qui la scelta di «tenere queste persone separate, in qualche “recinto” – magari dorato – o nelle “riserve” del pietismo e dell’assistenzialismo, perché non intralcino il ritmo del falso benessere».

Al di là dell’agiografia di Dinfna, nella quale è complesso separare storia, tradizioni orali e folclore, ciò che risulta innegabile è l’impatto di questa santità sulla società di Geel. Le vicende e i meriti di Dinfna, infatti, si diffondono rapidamente al di qua della Manica e l’allora villaggio belga diventa presto meta di nutriti pellegrinaggi. Protagonisti soprattutto quanti sono ritenuti malati di mente secondo i canoni dell’epoca, dei quali santa Dinfna assurge a patrona. Non per una malattia propria, ma per la violenza furiosa del padre, a buon titolo ritenuto insano, forse anche indemoniato.

Sull’onda della devozione alla santa, le cronache dell’epoca riferiscono non soltanto dell’istituzione di una casa per ospitare i pellegrini, in seguito divenuta un vero e proprio istituto psichiatrico, ma anche dell’impegno comune dei cittadini di Geel nell’accoglienza dei malati, ai quali aprono le proprie case, in quella che appare un’anticipazione dei più moderni metodi di cura in “case famiglia”. Un aspetto misconosciuto della carità cristiana medievale, ma anche una buona pratica che prosegue ancora oggi, qualificando il sistema sanitario di Geel fra i più attivi sul fronte della deistituzionalizzazione della cura dei malati psichici.

Gravi e quotidiane sono le tragedie che colpiscono le famiglie a causa di dinamiche riconducibili a menti instabili. Perché il disagio mentale non è quasi mai un peso portato soltanto da chi ne soffre, bensì è condiviso dalla famiglia e, nell’indifferenza delle istituzioni, dal resto della società. Che nel modo in cui vive la malattia – propria, ma soprattutto altrui – mostra «l’amore che siamo disposti a offrire. Il modo in cui affrontiamo la sofferenza e il limite è criterio della nostra libertà di dare senso alle esperienze della vita, anche quando ci appaiono assurde e non meritate».

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La risposta alla malattia, anche nelle sue derive più violente e meno scontate, non può che essere l’amore. «Oggi una delle patologie più frequenti è anche quella che tocca lo spirito. È una sofferenza che coinvolge l’animo e lo rende triste perché privo di amore. La patologia della tristezza». Tristezza come male di vivere, anche nella forma della depressione. Non è allora un caso che santa Dinfna sia invocata anche quale patrona dei depressi. Come tale negli scorsi anni è stata affiancata dalla Chiesa cattolica in Inghilterra alla bizzarra iniziativa del cosiddetto “Blue Monday”, il “lunedì blu”, il giorno più triste dell’anno, che coinciderebbe – senza particolari conferme – con il terzo lunedì di gennaio.

Se di per sé l’evento è stravagante, tale non è la depressione, un’emergenza sanitaria oggi fra le più insidiose, ma che secondo le previsioni dell’Oms nel 2020 sarà anche la più diffusa al mondo. Tanto più se alla depressione si assommano dipendenze sempre più precoci e pervasive – dal gioco, dalla pornografia, dal consumismo, dalle tecnologie – che condannano uomini, donne e sempre più spesso anche bambini alla schiavitù di manie e di piaceri sempre più deviati.

Nell’immagine: le Sette scene della vita e della devozione di santa Dinfna del pittore fiammingo Goswin van der Weyden, all’asta a Sotheby’s nel 2010 e oggi custodite al Museo reale di belle arti di Anversa.

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