Dalle torture inflitte dalle “poetesse” dell’Isis, al malcostume femminile in Occidente, passando per Corea e Birmania. Brutte storie di donne che contano.
Intimidazioni, percosse, morsi. E poi strumenti di tortura che lacerano la carne, come mascelle di metallo. Talvolta fino alla morte. Punizioni per una parola di troppo o un lembo di pelle non coperta. Nel complesso, l’orrore che devono affrontare ogni giorno le donne nei territori ancora sotto il controllo dell’Isis. Violenza inflitta da altre donne: le miliziane della sezione femminile dell’Hisba, la polizia morale di Daesh.
Nessuno sa chi abbia inventato queste torture, ma quel che è certo è che non fanno parte della tradizione islamica. Quel che invece si sa è che qualcuno, con un sadico senso della storia, ha chiamato questa sezione “Katiba al-Khansa”, dal nome di una poetessa della prima era islamica. Istituito nel 2014 a Raqqa, capitale siriana dello Stato islamico, il gruppo è formato da sole donne, in gran parte provenienti dalla comunità araba sunnita. A loro è affidato il compito di far rispettare ad ogni donna la legge islamica e soprattutto la condotta di vita imposta dall’Isis. Perché il jihad non è solo cosa da uomini. Ben pagate – si dice anche più dei “colleghi” maschi – queste donne con la violenza si sono ritagliate poco invidiabili spazi di potere. Un copione al femminile purtroppo già andato in scena in passato, dall’attacco al teatro Dubrovka di Mosca del 2002 alla strage della scuola di Beslan del 2004.
Quello della brigata al-Khansaa non è poi che il terribile vertice di una corruzione morale che in Occidente assume la forma del malcostume. A pochi giorni da un 8 marzo che ha giustamente celebrato le conquiste femminili nel lavoro e nella politica e ricordato il molto che ancora resta da fare, storie come questa fanno riflettere. Che dire, infatti, di Park Geun-hye, primo presidente donna della Corea del Sud, deposta definitivamente pochi giorni fa dalla Corte costituzionale per le accuse di corruzione a suo carico? Un caso che si è accompagnato alla caduta dei vertici del colosso nazionale Samsung, coinvolti nello scandalo di governo per tramite di un’altra donna, Choi Soon-Sil, “la Sciamana”, molto vicina alla presidentessa Park.
Prima donna alla guida del suo Paese è stata anche la brasiliana Dilma Rousseff. Due mandati – e una scia di violenze – dopo, la Rousseff è stata destituita definitivamente il 31 agosto 2016. Anche per lei l’accusa è di aver manipolato il budget per incrementare le sue chance di rielezione, mentre proseguono le indagini per sospetta corruzione. Accuse simili a quelle mosse all’ex presidentessa argentina Cristina Fernández de Kirchner, sospettata di aver accettato mazzette per concedere appalti nei lavori pubblici ad aziende di favore.
Ben più grave la posizione di Aung San Suu Kyi. Per anni sulla scena nazionale come paladina dei diritti umani, insignita dei premi Rafto, Sakharov e del Nobel per la pace, da quando “The Lady”, come è soprannominata, è salita al potere ha mostrato un lato che per molti si è rivelato inedito. Al centro della triste vicenda le violenze – in un mix di nazionalismo birmano e buddismo – patite dalla minoranza etnica islamica dei Rohingya. Inclusi dalle Nazioni Unite fra i gruppi più perseguitati al mondo – insieme ai cristiani – se la loro voce ha scalato il Vaticano così non è stato per la Birmania, dove Aung San Suu Kyi non ha finora prestato orecchio alle loro sofferenze, trincerandosi dietro ad un silenzio che sa di complicità.
Curioso come dietro a tutte queste “donne al vertice” si profili l’ombra di presenze maschili ingombranti: Park Chung-hee, padre di Geun-hye, salito al potere in Corea con un colpo di Stato nel 1961 e assassinato nel 1979; Luiz Inácio “Lula” da Silva, mentore della Rousseff, anch’egli coinvolto in vicende di corruzione; Néstor Kirchner, marito di Cristina e a sua volta presidente dell’Argentina; Aung San, padre di Aung San Suu Kyi, capo della fazione nazionalista del Partito Comunista della Birmania, assassinato nel 1947. Alcuni direbbero che la mela non cade lontano dall’albero, altri che uomini e donne, una volta accecati dall’ambizione, non sono poi così diversi. Certamente un monito per quanti vedono nelle donne al potere – o nel sacerdozio femminile – una panacea contro tutti i mali della politica e della Chiesa.
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