Certo che no. La “sopportabilità” di san Bonaventura: i sacerdoti sono uguali sull’altare, ma non dietro

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Con Luis Badilla – da amici appassionati, e non da teologi – si sta riflettendo in questi giorni di buoni sacerdoti e cattivi pastori, fra teologia e pratica del mondo. Per scoprire che queste ultime sono, in fondo, la medesima cosa.

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Accanto a quanto detto in precedenza, è bene ricordare, sempre come nota alla riflessione e rimanendo ai margini del complesso campo della teologia, la posizione di Bonaventura da Bagnoregio, il francescano, filosofo e mistico dottore “serafico” – tale, chissà, forse anche per aver trovato la serenità di un sano equilibrio. E forse di una santa distinzione. Nel quarto libro delle sue Sententiae, infatti, Bonaventura ricorda come un buon sacerdote nulla possa aggiungere ed uno cattivo nulla possa togliere al mistero del Corpo e del Sangue di Cristo.

Tutto qui? Non proprio. A Bonaventura, così come ad ogni cristiano dotato di saggezza, risulta evidente, infatti, come dignità e fervore del celebrante abbiano un grande peso nell’esempio e nella santificazione offerti ai fedeli a corredo del sacramento, a maggiore beneficio delle anime. Fermo restando il valore in sé della Messa e di ogni sacramento – scrive il settimo successore di Francesco d’Assisi alla guida dell’Ordine – «se qualcuno ascolta più volentieri la Messa di un sacerdote devoto, credo che faccia bene» (d. 13, a. 3, q. 1).

Dietro l’apparente semplicità dell’affermazione di Bonaventura si cela un mondo. È fuori di dubbio, infatti, che un “buon sacerdote” non sia uguale ad un “cattivo sacerdote” (al pari di un “buon fedele” e di un “cattivo fedele”), salvo che nella medesima capacità dei sacerdoti di amministrare sacramenti ugualmente validi. Tanto quanto è indiscutibile l’urgenza che, nelle sedi competenti, si adottino gli opportuni strumenti per impedire a taluni pessimi sacerdoti (che si sono macchiati di pedofilia, ma non soltanto) di continuare a svolgere un ministero del quale si sono dimostrati con tanta evidenza indegni. Per giunta a detrimento non solo proprio e delle vittime, ma dell’intera Chiesa, come testimoniano le difficoltà sperimentate dalla comunità cattolica in Cile e in Irlanda, soltanto per citare due fra i molti esempi possibili.

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Altrettanto necessario, però, è tutelare la sacralità del ministero sacerdotale in quanto tale, che non si identifica con questo o con quel sacerdote, buono o cattivo che sia, ma con Cristo stesso. Pena sarebbe lo svilimento di quei buoni preti che sono invece da proteggere ad ogni costo, in quanto vera ricchezza della comunità cristiana.

Buona parte di una medesima partita, infatti, si gioca attorno alla natura stessa del sacramento – dell’Eucaristia quanto del matrimonio, per la rievocata questione della comunione ai divorziati impegnati in una nuova relazione – che sfugge alla piena regolamentazione della Chiesa e dell’uomo, in quanto appartenente a Dio.

In conclusione, è motivo di gioia che di fronte ai crimini gravissimi perpetrati da alcuni membri del clero buona parte del popolo di Dio abbia conservato la capacità di indignarsi. E anche di ribellarsi. In fondo, «un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei» (Gv 10,5). Una ribellione che non deve essere strappo o fuga in avanti, ma capacità di “non seguire” – non seguire anche il senso della maggioranza – mantenendosi fermi all’unica Verità che non tradisce e cogliendo, giudicandoli con speranza sebbene ancora non del tutto sufficienti, i segnali del cambiamento in atto nella Chiesa. Con la consapevolezza, per dirla con lo stile di Francesco, che «a questo riguardo il popolo di Dio possiede un fiuto infallibile nel riconoscere i buoni pastori e distinguerli dai mercenari». Una virtù, si direbbe, quanto mai preziosa di questi tempi, tanto rispetto alla Chiesa quanto alla politica fatta “di pancia”.

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1 commento su “Certo che no. La “sopportabilità” di san Bonaventura: i sacerdoti sono uguali sull’altare, ma non dietro”

  1. Caro Simone, in una notte “lunga, calda e tempestosa” mi sono imbattuta in questo tuo scritto che mi ha rinviato a quello di Luis Badilla.Ho letto entrambe le vostre riflessioni e sono maturate alcune considerazioni rispetto a quanto da voi argomentato. Molte volte quello che il cristiano comune definisce “non prete” non si è macchiato di gravi colpe che rimandano ad abusi, ma semplicemente segue una condotta, con il corpo e con la mente, poco consona. Detto in altri termini, egli fa e/o dice cose provocando problemi, pettegolezzi e facendo insorgere discussioni e malcontento. Piccole cose che, unite una dopo l’altra, come tante perle di pica saggezza finiscono per creare collane di perle di odio. Ora siamo tutti figli di Dio e l’errore è umano, ma quando riconosci tali “discutibili,” modi di fare e/o di dire in chi dovrebbe essere per te illuminante, va da sé che qualche malumore nasca e che invece di essere guidati nella serenità ci si ritrovi invischiati nelle maglie del giudizio e del malcontento. Questa può sembrare una considerazione banale, ma non lo è nel momento in cui si pensa e si riconosce anche il ruolo educativo e di orientamento a cui un ministro di Dio è chiamato da sempre, quel ruolo grazie al quale, da secoli, la cultura dei più semplici ha ottenuto giovamento. A questo, si unisce una mia seconda riflessione. Il problema che nasce davanti a un sacerdote che dietro l’altare non brilla di virtù, è l’atteggiamento del credente che in quel momento, complice il piano di estrema sensibilità in cui è riposto l’atteggiamento religioso per qualsiasi persona, semplicemente non smette di credere in Dio, ma nel valore dell’atto compiuto o dalle parole espresse dalla persona messa in discussione. È quindi, ad esempio, l’atteggiamento e l’umore di come ci si predispone all’ascolto della Parola di Dio, alla Consacrazione e alla Comunione.E per quanto il Ministero sacerdotale non scompaia di fronte agli atti più terribili, quella mano attraverso cui mi arriva il Corpo di Gesù diventa oggetto di repulsione e condanna sminuendo la sacralità di un momento intenso e intimo. Forse queste riflessioni, nate in una notte “lunga, calda e tempestosa” sono state espresse poco lucidamente ma la sintesi è che quando si riconosce la perfettibilità sarebbe cosa buona che questa venisse accompagnata dall’umiltà e invece sempre più spesso capita che, sacerdoti e non, additino l’altro senza rivolgere lo sguardo su di sé o, cosa ancora più terribile, si celino dietro la perfettibilità della natura umana non impegnandosi al miglioramento, complice una lettura e una messa in pratica della Confessione a personale (ed estremamente originale) uso e consumo!Grazie per il tempo dedicatomi.

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