È inevitabile che avvengano scandali, ma guai a colui per cui avvengono. Un ritratto magistrale del nostro tempo, di dolore, ma anche di speranza. Nel quale la storia ci può venire in aiuto.
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Triste è il tempo che siamo chiamati a vivere, attraversato com’è dalla violenza della trasgressione – a Dio, all’umanità, al Creato – e dalle sue conseguenze. Un tempo, per dirla con le parole di papa Francesco, capace di «uccidere: uccidere speranze, uccidere illusioni, uccidere famiglie, uccidere tanti cuori». Anche e soprattutto del popolo di Dio più fragile, tanto più quando a colpirlo sono i suoi stessi pastori: pedofilia, omosessualità, malaffare.
Di fronte al moltiplicarsi dei misfatti commessi dai sacerdoti, alcuni dei quali di terribile gravità, sorge spontaneo chiedersi se l’Eucaristia – e con questa il resto dei sacramenti da essi officiati – abbiano o meno piena validità. Un quesito tutt’altro che secondario per il popolo credente, né una novità della nostra epoca. Accanto ad un’emotività che suggerisce di ricercare soluzioni umane ad ogni questione, se non di gettare via ogni cosa, c’è però la speranza che viene da Cristo e dalla stessa storia della Chiesa.
Che valore può avere il matrimonio celebrato da un prete concubinario? E che dire della Messa officiata da un sacerdote invischiato con i poteri mondani, non da ultimo con quello del denaro? Può forse stupire, ma non è un caso che un’importante lezione sul nostro tempo ci venga, una volta di più, dai secoli che ci hanno preceduto. Nel tardo Duecento, ancora in pieno medioevo, scrive Tommaso d’Aquino: «Uno può essere ministro di Cristo senza essere giusto. E ciò mette in risalto l’eccellenza di Cristo, poiché a lui come a vero Dio servono non solo le cose buone, ma anche quelle cattive, che la sua provvidenza indirizza alla propria gloria». Testimonianza non solo dell’attualità del pensiero del santo domenicano, ma anche del fatto che gli scandali nella Chiesa non sono un’invenzione dei nostri giorni.
A chiarire definitivamente la questione, salvaguardando anche il prezioso ruolo sociale svolto dalla Chiesa, pensa tre secoli dopo il Concilio di Trento, durante i complessi anni della transizione verso l’età moderna, quando questo genere di interrogativi emerge con una violenza fino ad allora inaudita, abilmente cavalcata da alcuni esponenti della Riforma protestante. È allora che si delinea la consapevolezza che il celebrante principale è sempre Cristo, ragione per la quale i sacramenti producono infallibilmente il loro effetto. In teologia si dice ex opere operato, vale a dire indipendentemente dalla dignità e dal fervore di chi li amministra.
L’uomo, anche e soprattutto quando sacerdote, è solo uno strumento, il ministro delegato, un personaggio in certo senso secondario. E come non potrebbe esserlo al confronto di Cristo? Che sia questo, in fondo, l’insegnamento che ci viene dalla storia? Una lezione importante, specialmente in tempo di imperante egocentrismo.
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