Benedetto XVI: strumentalizzato, mitizzato, incompreso e compresso dentro tempi e categorie che non spiegano nulla. Per questo, un emblema di libertà.
«Dio è l’eterno, mentre il tempo è un idolo, quando diventa oggetto di venerazione». Basterebbe questa frase, tratta da Il Dio di Gesù Cristo di Joseph Ratzinger, a tracciare la parabola di una vita: la fede, il rapporto con l’eterno e libertà di vivere i limiti della condizione umana. Il tempo, con Benedetto XVI, è stato generoso. Tempo che riecheggia in una vita lunga e piena, in confronto alla quale il suo primato di pontefice più longevo della storia della Chiesa è ridotto ad una semplice nota di colore.
Frammenti
Perché rimane la consapevolezza che qualsiasi tentativo di racchiudere la vita dentro gli anni, così come in parole e righe di testo, si risolve inevitabilmente in uno sguardo parziale, in un minuscolo frammento che trova il proprio posto soltanto in un disegno infinitamente più grande. È, né più né meno, il destino di ogni esistenza umana. La pretesa di avere colto, se non addirittura compreso, l’essenza di un individuo è destinata, senza eccezioni, al fallimento.
L’eternità di Romano Guardini
Soltanto l’esempio – il ricordo che si traduce in azione di vita – può in qualche misura sperare di non risultare completamente inadeguato e di restituire vitalità e memoria ai frammenti. «L’eterno non è in rapporto con la vita biologica, bensì con la persona», scrive all’inizio degli anni Cinquanta Romano Guardini, teologo e filosofo particolarmente caro a Benedetto XVI, nel suo Le età della vita. «Esso non conserva [la persona] perpetuandola, bensì la realizza in senso assoluto. La consapevolezza di questa perennità cresce nella misura in cui la caducità è sinceramente accettata».
«Accettare la finitezza di questa vita», come rivela Benedetto XVI al giornalista Peter Seewald, è stile di un’intera esistenza. La speranza di «potermi unire presto» agli amici defunti, piuttosto che la consapevolezza che «ben presto mi troverò di fronte al giudice ultimo della mia vita», come scritto da Benedetto XVI in due occasioni a fine 2021 e inizio 2022, non sono pie affermazioni isolate. Non si tratta delle fiducie e dei timori estemporanei di un anziano, ma la consapevolezza che «il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino» (Spe salvi).
Ma la caducità vale per le persone così come per il tempo. Romano Guardini si rivolge ad un secolo che è il medesimo di Joseph Ratzinger – il Novecento –, un secolo in procinto di spegnersi nella stagione dei totalitarismi per entrare nelle braci di nuove e ancora più subdole forme di pensiero totalizzante. Che fa dell’accumulo – di tempo, di ricchezza, di potere – la base di un’eternità effimera. Al contrario, prosegue Romano Guardini, «l’eternità non è un “più quantitativo”, per quanto sia incommensurabile, bensì è qualcosa di qualitativamente altro, libero, incondizionato».
Libertà e follia
Non il contenitore definisce una vita, bensì il suo contenuto. Non il tempo, ma il suo impiego. E «il comportamento morale è possibile solo là dove vi è libertà», scrive Guardini in Etica. «L’azione libera ha […] un carattere particolare: parte dal principio interiore di vita, dal moto autonomo dello spirito, dalla decisione con la quale dispongo del mio essere».
Si è molto discusso dell’effettiva e «piena libertà» di scelta nella rinuncia di Benedetto XVI, nel 2013. Ma qualunque ne siano state le ragioni, in alcun modo ne viene sminuito l’esempio di libertà incarnato da Ratzinger. Libertà di congedarsi da un certo esercizio del potere, libertà di sottrarsi a dinamiche asfissianti, libertà di farsi carico di questa responsabilità.
Una libertà tanto assoluta da poter essere scambiata per follia. «Un ordine buffonesco (Narrenorden), mediante cui prendiamo in giro noi stessi e la serietà del gran mondo, è una buona cosa. Ed è anche per questo che l’ho ricevuto volentieri», spiega nel 1989 l’allora card. Joseph Ratzinger durante la cerimonia con cui gli viene conferito l’Ordine di Karl Valentin, cabarettista e attore teatrale tedesco. Ratzinger ricopre in quel momento il ruolo di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, apparentemente quanto di più distante possa esserci dalla comicità.
«Alcuni hanno esposto dubbi sul fatto che ciò si accordi con un’occupazione così seria come la mia. A me pare che vi ci si adatti benissimo, giacché, notoriamente, poter dire la verità è il privilegio dei folli. Alle corti degli antichi potentati, il giullare era spesso l’unico a potersi permettere il lusso della verità. E siccome per la mia occupazione mi accade di dover dire la verità, sono davvero felice di essere stato or ora accettato nella categoria di coloro i quali godono di quel privilegio. Chi, dicendo la verità, non si sentisse un po’ clown, di certo diverrebbe troppo facilmente un autocrate». In tempi di autoritarismi, talvolta anche nella Chiesa.
Il pontificato, e forse la vita, di Benedetto XVI sono stati troppo spesso ridotti ad una scelta fatta 10 anni or sono. Eppure è quello sguardo verso l’assoluto, al contempo umile e profetico, libero e folle, uno dei più grandi doni di Joseph Ratzinger alla Chiesa. Un’eredità per ogni cristiano.
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