L’arte di Giuseppe? Avere un cuore di padre

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Giuseppe. Per Gesù ombra sulla terra del Padre Celeste, secondo lo scrittore polacco Jan Dobraczyński (L’ombra del Padre. Il romanzo di Giuseppe, 1977). Santo della buona morte. Santo che non fa rumore, neppure dopo secoli di devozioni, riflessioni e documenti. Ultimo in ordine di tempo, la lettera apostolica Patris corde voluta da papa Francesco a 150 anni dalla proclamazione di san Giuseppe patrono della Chiesa universale. La parificazione dei ruoli genitoriali in famiglia e la trasformazione – a tratti sviante – cui è andata incontro la figura paterna negli ultimi decenni contribuiscono a rendere sempre più attuale la figura di Giuseppe. Un santo da secoli interessante anche per l’arte, che di Giuseppe ha saputo cogliere tutto il fascino più e prima d’altri.


Giotto, Consegna delle verghe
Giotto, Consegna delle verghe, affresco, c. 1303-1305, Padova, Cappella degli Scrovegni.

Di Giuseppe le Scritture rivelano pochi dettagli, ma questo non ha frenato gli artisti di ogni epoca, che per raffigurare la vita del Santo hanno guardato ai testi apocrifi e devozionali, scovandone anche episodi curiosi. È il caso della Consegna delle verghe di Giotto, parte delle Storie di Maria della Cappella degli Scrovegni a Padova. L’artista attinge al Protovangelo di Giacomo e alla Leggenda aurea di Jacopo da Varazze per mettere in scena il miracolo della verga fiorita, mediante il quale Giuseppe sarebbe stato scelto per indicazione divina fra i molti pretendenti alla mano di Maria. Giuseppe, anziano e dotato di nimbo, è piuttosto arretrato nella fila: una visibilità celata agli uomini, ma non a Dio. Inutile dire quale sarà l’unica verga a fiorire, dando vita ad un simbolo ricorrente nell’iconografia di san Giuseppe. «Non importa se ormai tutto sembra aver preso una piega sbagliata e se alcune cose ormai sono irreversibili. Dio può far germogliare fiori tra le rocce» (P.C., 4).

Il pentimento di Giuseppe per il proprio dubbio
Il pentimento di Giuseppe per il proprio dubbio, olio su tavola, c. 1425, Hoogstraten (Belgio), chiesa di Santa Caterina.

L’episodio più celebre è quello narrato nei Vangeli: al giusto Giuseppe, assalito dai dubbi sull’inattesa gravidanza della promessa sposa Maria, appare un angelo che lo rassicura sulla natura divina del concepimento di Gesù. Ma cosa accadde dopo? Prova a dare una risposta l’autore di questa piccola composizione, oggi conservata in Belgio: dopo aver ricevuto in sogno l’ammonimento dell’angelo, episodio raffigurato in alto a sinistra, Giuseppe si reca a casa di Maria, pentito per aver dubitato di lei. Inginocchiato ai suoi piedi e insolitamente privo di aureola, Giuseppe è circondato da una varietà di attrezzi che lo qualificano come falegname. La futura sposa, in dolce attesa, gli stringe teneramente la mano. «Giuseppe si presenta come figura di uomo rispettoso, delicato che, pur non possedendo tutte le informazioni, si decide per la reputazione, la dignità e la vita di Maria. E nel suo dubbio su come agire nel modo migliore, Dio lo ha aiutato a scegliere illuminando il suo giudizio» (P.C., 4).

Jean-Baptiste Wicar, Sposalizio della Vergine
Jean-Baptiste Wicar, Sposalizio della Vergine, 1825, olio su tela, Perugia, cattedrale di San Lorenzo.

Ci sono Raffaello e Perugino, con le rispettive versioni dello Sposalizio della Vergine da sempre a confronto nei libri di storia dell’arte, nelle quali le architetture sembrano prevalere sulla narrazione. Ma certamente non solo. Ha qualcosa da dire, ad esempio, anche la meno celebre opera di Wicar, pittore e direttore della commissione incaricata del sequestro delle opere d’arte in Olanda e in Italia al seguito della campagna napoleonica. Della pala d’altare, intessuta attorno allo scambio delle fedi nuziali, colpisce l’intensità dello sguardo che un giovane Giuseppe rivolge a Maria. Al complesso intrecciarsi di relazioni fra il lato maschile e quello femminile della scena, è curioso notare chi, fra i pretendenti scartatati, ancora fatichi ad arrendersi, mestamente intento a spezzare la propria verga, ma catturato dalla bellezza della Vergine. «Lì dove una vocazione, matrimoniale, celibataria o verginale, non giunge alla maturazione del dono di sé fermandosi solo alla logica del sacrificio, allora invece di farsi segno della bellezza e della gioia dell’amore rischia di esprimere infelicità, tristezza e frustrazione» (P.C., 7).

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Konrad von Soest, Natività
Konrad von Soest, Natività, c. 1404, tempera su tavola, Bad Wildungen (Germania), chiesa parrocchiale di San Nicola.

Nelle rappresentazioni della Natività Giuseppe è spesso defilato, a rendere simbolicamente la sua estraneità al concepimento di Gesù. Qui Konrad von Soest – non a caso, esponente del cosiddetto “stile tenero” diffuso nel ‘400 in area renana – fa di più, unendo due scene di grande delicatezza: sullo sfondo, a destra, si consuma l’apparizione dell’angelo ai pastori, resa con semplicità; in basso, Giuseppe è ritratto nell’atto di scaldare sul fuoco un semplice pasto, con già pronti piatto e cucchiaio, per Maria e il Bambino. «Padri non si nasce, lo si diventa. E non lo si diventa solo perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui. Tutte le volte che qualcuno si assume la responsabilità della vita di un altro, in un certo senso esercita la paternità nei suoi confronti» (P.C., 7).

Hieronymus Bosch, Trittico dell'adorazione dei magi
Hieronymus Bosch, Trittico dell’adorazione dei magi, c. 1494, olio su tavola, Madrid, Museo del Prado.

Posto che nell’episodio evangelico dell’adorazione dei magi (Mt 2,1-12) Giuseppe non è menzionato, non manca di irriverenza la composizione di Bosch, ricca di simbolismi, che vuole il padre putativo di Gesù relegato nel pannello di sinistra. Collocato idealmente sul retro dell’ambientazione, Giuseppe è intento ad asciugare i panni di famiglia vicino al fuoco sotto una povera tettoia, mentre il sontuoso corteo regale si accalca all’ingresso, insieme alla folla (e all’anticristo, sulla porta della stalla). Non si tratta di un caso unico: anche Lucio Massari vuole Giuseppe – questa volta con Maria e Gesù – alle prese con le faccende domestiche (Sacra Famiglia, detta “Madonna del bucato”, 1620, Firenze, Galleria degli Uffizi). Femminismo ante litteram? Tutt’al più una certa praticità. E una buona dose di ironia. «La felicità di Giuseppe non è nella logica del sacrificio di sé, ma del dono di sé. Non si percepisce mai in quest’uomo frustrazione, ma solo fiducia. Il suo persistente silenzio non contempla lamentele ma sempre gesti concreti di fiducia. Il mondo ha bisogno di padri, rifiuta i padroni» (P.C., 7).

Daniel Mitsui, Il secondo sogno di Giuseppe
Daniel Mitsui, Il secondo sogno di Giuseppe, 2014, inchiostro su carta washi con foglia d’oro e palladio, collezione privata.

Uomo dei sogni, e di sogni grandi. Se nell’Antico Testamento il Signore cammina dentro la storia del suo popolo e i patriarchi sono figure della rivelazione divina e dell’Alleanza, nel Nuovo Testamento Dio cammina tra la sua gente nel nascondimento di un Bambino. Alla testa di questo nuovo, piccolo “popolo” – la santa Famiglia prima, la Chiesa poi – c’è un nuovo modello di patriarca, Giuseppe. Un patriarca in grado di sognare. Rifacendosi allo stile del pittore, incisore e poeta Tsukiyoka Yoshitoshi, Daniel Mitsui dona all’arte tradizionale giapponese una ventata di modernità. L’angelo, come sospinto da un colpo di vento, appare a Giuseppe dormiente sulla soglia della stalla di Betlemme. In mano regge un ventaglio nel quale è prefigurata la fuga della santa Famiglia in Egitto. In basso a sinistra tre doni, resi in stile giapponese, indicano l’avvenuta visita dei magi. «Anche la nostra vita a volte sembra in balia dei poteri forti, ma il Vangelo ci dice che ciò che conta, Dio riesce sempre a salvarlo, a condizione che usiamo lo stesso coraggio creativo del carpentiere di Nazaret, il quale sa trasformare un problema in un’opportunità anteponendo sempre la fiducia nella Provvidenza» (P.C., 5).

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Luc-Olivier Merson, Riposo durante la fuga in Egitto
Luc-Olivier Merson, Riposo durante la fuga in Egitto, 1879, olio su tela, Boston, Museo di Belle Arti.

L’essenzialità onirica della composizione di Merson, pittore e illustratore francese, è di rara potenza evocativa, come, del resto, molta parte della sua produzione artistica. In fuga dalla violenza di Erode, la santa Famiglia trova rifugio in Egitto. Giuseppe è raffigurato a terra vicino ad un falò morente, coperto dal mantello. Accanto a lui l’asino, sgravato della sella, bruca dell’erba. Sullo sfondo, le dune sembrano perdersi fra le onde e il cielo fra le stelle. A sinistra, Maria e il Bambino, con il capo circondato di luce, trovano riparo fra le zampe di una sfinge. Ai loro piedi la sabbia va già ricoprendo la gloria umana. Non così la gloria di Dio. «Il Vangelo non dà informazioni riguardo al tempo in cui Maria e Giuseppe e il Bambino rimasero in Egitto. Certamente però avranno dovuto mangiare, trovare una casa, un lavoro. […]. La santa Famiglia dovette affrontare problemi concreti come tutte le altre famiglie, come molti nostri fratelli migranti che ancora oggi rischiano la vita costretti dalle sventure e dalla fame» (P.C., 5).

Presentazione di Gesù al Tempio
Presentazione di Gesù al Tempio, XII sec., smalti cloisonné, Tbilisi (Georgia), Museo di belle arti Shalva Amiranashvili.

Sull’effettiva povertà di Giuseppe e di Maria si dibatte da tempo, fra chi vorrebbe Giuseppe un semplice falegname e chi invece un carpentiere a capo di un’impresa di costruzioni. Chiara, però, è la natura dell’offerta portata dalla coppia di sposi al Tempio di Gerusalemme (Lc 2,22-24), in occasione della presentazione di Gesù o della purificazione di Maria (Lev 12,1-8): una coppia di tortore o di colombi, offerta tipica di chi non poteva permettersi altro. Lo mostra con semplicità questa piccola formella (12×10 cm) decorata di smalti cloisonné realizzata in Georgia nel XII secolo. Vi compaiono, insieme alla santa Famiglia, Simeone e Anna. «La Chiesa non può non amare innanzitutto gli ultimi, perché Gesù ha posto in essi una preferenza, una sua personale identificazione. Da Giuseppe dobbiamo imparare la medesima cura e responsabilità: amare il Bambino e sua madre; amare i Sacramenti e la carità; amare la Chiesa e i poveri. Ognuna di queste realtà è sempre “il Bambino e sua madre”» (P.C., 5).

William Holman Hunt, Il ritrovamento del Salvatore al Tempio
William Holman Hunt, Il ritrovamento del Salvatore al Tempio, 1860, olio su tela, Birmingham, Museo di Birmingham e Galleria d’Arte.

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Fra le innumerevoli interpretazioni del Ritrovamento di Gesù al Tempio, quella di William Holman Hunt ha il merito restituire un certo protagonismo a Giuseppe. Il falegname di Nazaret è accanto alla sposa e a Gesù, che cinge con un braccio. Maria sussurra al figlio la preoccupazione propria e di Giuseppe per la sua scomparsa (Lc 2,48). La santa Famiglia, al seguito di Gesù, irrompe poco oltre la soglia del Tempio, al pari degli uccelli sopra le loro teste, come una ventata di novità. L’effetto è ben visibile sui volti attoniti e negli occhi sgranati dei dottori della Legge. Sullo sfondo, accanto a mercanti e cambiavalute, una coppia di giovani sposi presenta il figlio al Tempio, recando un agnello in offerta. L’ambientazione è ricostruita da William Holman Hunt con un realismo quasi maniacale, che enfatizza accuratezza etnografica e simbolismo biblico maturati nei numerosi viaggi nel Vicino e Medio Oriente per creare la composizione, studiando persone, luoghi, usanze e rituali. «Come Dio ha detto al nostro Santo: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere” (Mt 1,20), sembra ripetere anche a noi: “Non abbiate paura!”. Occorre deporre la rabbia e la delusione e fare spazio, senza alcuna rassegnazione mondana ma con fortezza piena di speranza, a ciò che non abbiamo scelto eppure esiste» (P.C., 4).

Scuola coloniale spagnola, Santa Famiglia
Scuola coloniale spagnola, Santa Famiglia, XIX sec., olio su tela, Marlborough (Stati Uniti), collezione privata.

La vita della santa Famiglia è scandita da eventi straordinari, ma anche dal ritmo semplice del quotidiano di Nazaret. Un tratto che la scuola di Cuzco e del barocco andino sanno cogliere appieno, insieme a questo dipinto di scuola coloniale spagnola, di straordinaria essenzialità cromatica. Maria, Giuseppe e Gesù sono raffigurati con spontaneità in un ambiente domestico, pur nella regalità pressoché immota della scena: Maria, intenta a mescolare il contenuto di una pentola sopra un braciere, porge allo sposo un piatto, dal quale Giuseppe attinge per imboccare il Bambino. «Tutti possono trovare in San Giuseppe, l’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta, un intercessore, un sostegno e una guida nei momenti di difficoltà. San Giuseppe ci ricorda che tutti coloro che stanno apparentemente nascosti o in “seconda linea” hanno un protagonismo senza pari nella storia della salvezza» (P.C.).

Johann Friedrich Overbeck, La morte di san Giuseppe
Johann Friedrich Overbeck, La morte di san Giuseppe, 1832-1836, olio su tela, Basilea, Kunstmuseum Basel.

L’opera di Overbeck, pittore tedesco nato a Lubecca da una famiglia di pastori protestanti per generazioni, convertitosi al cattolicesimo nel 1813, ha il merito di discostarsi dall’iconografia tradizionale della Morte di san Giuseppe almeno per un elemento: mentre in gran parte della produzione artistica Gesù conforta Giuseppe morente, facendosi prossimo al capezzale, qui il padre putativo di Gesù si è già abbandonato al sonno nel tenero abbraccio del Figlio di Dio. Il dolore raccolto di Maria contrasta con la serenità di Gesù, che sorride mentre benedice Giuseppe e gli posa con delicatezza una mano sul petto. Sopra di loro si aprono i Cieli e le braccia degli angeli. È, per certi versi, l’ultimo sogno di Giuseppe, reale al pari dei precedenti. «Il beato Pio IX lo ha dichiarato “Patrono della Chiesa Cattolica”, il venerabile Pio XII lo ha presentato quale “Patrono dei lavoratori” e san Giovanni Paolo II come “Custode del Redentore”. Il popolo lo invoca come “patrono della buona morte”» (P.C.).

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