Tolkien autore cristiano? Certo, ma non solo: poeta dell’uomo in cammino e della sinodalità della Chiesa. Un’avventura da hobbit.
«Devo confessare che tutta quella folla di orchi, di nani, di stregoni, di elfi, me la sentivo estranea e lontana, e francamente mi infastidiva». A dirlo il card. Giacomo Biffi, introducendo nel 1992 un convegno organizzato a Bologna nel centenario della nascita dell’accademico e scrittore britannico J. R. R. Tolkien, il padre de Il Signore degli anelli.
Per svelare subito dopo di essersi ricreduto. «Mi era stata offerta un’esperienza culturale tra le più gratificanti. Tolkien si imponeva alla mia attenzione per la sua robusta certezza che il bene e il male sono tra loro incompatibili; che nella storia umana è in atto un assalto tremendo da parte delle forze della perversione; che l’esistenza è drammatica e non ci si può cullare in un irenismo zuccheroso».
Tolkien, autore cristiano
Nonostante Dio o Cristo non vi siano nominati neppure una volta, molto si è detto – e contraddetto – circa le radici cristiane dell’opera di Tolkien. Esso stesso convertito al cattolicesimo, è Tolkien ad ammettere che «Il Signore degli anelli è fondamentalmente un’opera religiosa e cattolica». E certamente non si tratta della sola: echi di cristianesimo risuonano nell’intera produzione tolkieniana, con armonie particolarmente intense in alcune opere meno celebri, come il racconto “Foglia”, di Niggle.
Molti sono i punti di contatto con la fede cristiana, dalla gloriosa umiltà della salvezza al ruolo della provvidenza, dallo sguardo sul creato alle “piccole mani” che agiscono «per necessità, mentre gli occhi dei grandi sono rivolti altrove». Marcata è l’impronta della spiritualità del cardinale Newman e numerosi sono oggi gli estimatori di Tolkien anche Oltretevere, da papa Francesco al direttore dell’Osservatore Romano, Andrea Monda.
Chiesa in cammino
Ma c’è un tema che è tanto attuale nella Chiesa quando congeniale al legendarium tolkieniano: la sinodalità. E non certo per le riunioni degli Inklings, il circolo letterario che raccoglieva alcuni docenti di Oxford, compresi Tolkien e C. S. Lewis. E neppure per la celebre “Compagnia dell’anello”, il variegato – e dialettico – gruppo di eroi ordinari incaricato di mettersi in viaggio per salvare la Terra di Mezzo dal Male.
«Vanno le strade, lunghe e infinite / nei boschi folti e privi di uscite, / passan spelonche che il sole non hanno, / e ciechi fiumi che al mare non vanno; / solcano ghiacci e nevi d’inverno, / d’estate corrono nel verde eterno, / sopra le pietre e la tenera flora, / e sotto i monti screziati d’aurora». Sono queste le parole con cui Bilbo Baggins, protagonista de Lo Hobbit, saluta il ritorno a casa al termine del viaggio condotto, ancor prima che nella Terra di Mezzo, dentro se stesso.
Strada e radici della sinodalità
Si tratta di strofe che ben potrebbero rappresentare anche speranze ed attese, insidie e zone d’ombra dei Cammini sinodali che impegnano molte Chiese particolari. Perché se «la Strada se n’va ininterrotta / a partire dall’uscio onde mosse», come recita un’altra versione della canzone, all’inizio de Il Signore degli anelli, l’esito rimane piuttosto incerto: «E di poi? Io non so a quale approdo».
Sembra evidente come la Strada, con quella iniziale così maiuscola, raffiguri in Tolkien la vita – a suo modo, anche la vita della Chiesa – ricca dei suoi incontri, dei suoi impegni e dei suoi pericoli. L’intera Terra di Mezzo è, in fondo, un “mondo di strade”, un insieme di cammini distinti e distanti fintanto che «perverrà a un gran snodo / ove affluiscono piste e trasferte».
È una buona immagine dell’ermeneutica della continuità proposta alla Chiesa da Benedetto XVI, resa possibile soltanto nel perdurare del legame con la rivelazione di Cristo. L’essere in cammino è, per la Chiesa, natura e modo di essere nella sua missione nel mondo. Vale anche per il Sinodo, rispetto al quale negli ultimi anni si è preferita la forma etimologica del “viaggio insieme” in luogo della più statica (e tradizionale) “assemblea”. Così anche per la dottrina, secondo la visione del Papa che la vuole strada e albero: aperta alla ricerca, in cammino, ma ben radicata nella Verità. Un “viaggio” che impegna tanto la Chiesa quanto ogni singolo cristiano.
Tolkien e Bergoglio
È chiaro in Tolkien, infatti, il senso di un’avventura che unisce la dimensione del viaggio e dell’incontro a quella, non meno feconda, dell’introspezione. O di una profonda autocritica come istituzione. Il viaggio è occasione attraverso la quale maturare, approfondire il senso della vita e del reale, ritrovare piena coscienza di sé. Uscire, ma per rientrare in se stessi, per parafrasare Agostino. Fino a contribuire, in ultima analisi, alla sconfitta del Male.
«Tolkien, nella letteratura contemporanea, riprende in Bilbo e in Frodo l’immagine dell’uomo che è chiamato a camminare, e i suoi eroi conoscono ed attuano, camminando, il dramma che si svolge tra il bene e il male», spiega nell’imminenza della Pasqua 2008 l’allora cardinale arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio.
«L’uomo in cammino porta con sé una dimensione di speranza; un entrare nella speranza. In tutta la storia e la mitologia umane si sottolinea il fatto che l’uomo non è un essere fermo, stagnante, ma in cammino, chiamato, vocato – da qui il termine vocazione –, e quando non entra in questa dinamica viene annullato come persona oppure si corrompe». Un esito possibile anche per la Chiesa.
«Il mettersi in cammino è radicato in un’inquietudine interiore che spinge l’uomo ad uscire da se stesso, a sperimentare l’esodo da se stesso. C’è qualcosa fuori e dentro di noi che ci chiama a seguire il cammino. Uscire, camminare, levare il capo, accettare le intemperie e rinunciare al rifugio… questa è la via», concludeva allora Bergoglio.
Paure da nani e cattivo vento
È fuor di dubbio che «tutte le strade possono finire in un precipizio», per dirla con l’elfo Gildor. Perché se «scendi in Strada e non badi a dove metti i piedi, finisce che ti ritrovi sbattuto chissà dove», sembra fargli eco Bilbo Baggins. Tuttavia, anche nell’immaginario di Tolkien l’alternativa sembra peggiore: rintanarsi per paura. Tattica da hobbit, forse da nani. Al riparo dal vento, anche dello Spirito. Tutto sta, naturalmente, nel riconoscere il buon Vento dal pessimo turbine del mondo, che troppo spesso si è tentati di seguire, spacciandolo per aria nuova. Quel cattivo vento che non porta il bene di alcuno, come ebbe sempre a dire, secondo un adagio britannico, il vecchio Gamgee.
© La riproduzione integrale degli articoli richiede il consenso scritto dell'autore.