Quel che resta di una zattera

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Sofferenza e speranza. Tutta l’esperienza delle migrazioni è racchiusa fra questi due estremi. Difficile comprendere, anche con se stessi, se le cose più care sono quelle che ci si è lasciati alle spalle oppure l’essenziale che si stringe a sé nel viaggio. Talvolta, quando si sente che la propria vita sta andando in pezzi, rimane solo una zattera a cui aggrapparsi. Una fragile barriera fra il cielo e l’acqua, fra la vita e la morte.


La realtà, una volta di più, si è dimostrata più crudele della paura e più amara dell’arte. Troppo spesso quest’ultima ha creduto di affidare ai bambini la speranza di un giorno migliore del precedente. Ma non ha fatto i conti con il loro ultimo respiro, donato alle onde.

Zattere, come la Barca dell’artista bosniaco Safet Zec, dove sofferenza e speranza si distendono fra il capo chino di quanti il viaggio sembra avere sconfitto e i fanciulli che, nella luce che sorge all’orizzonte, sanno leggere l’inizio del nuovo. Il dolore ha trovato casa fra le migrazioni, ma non le abita da solo: convive con sogni dei quali, soprattutto di fronte a pezzi di vita e di legno gettati fra la sabbia, è umano dimenticarsi.

Vita ed emozioni che convivono su una zattera, legate dal filo rosso di un destino comune. Imbarcazione di un’umanità offesa e umiliata. Desolazione dantesca, «infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso». Salvo per l’anonimo graziato dal destino, «come quei che con lena affannata, uscito fuor del pelago a la riva». Finirà, forse, per coronare il proprio sogno di rinascita, oppure per essere gettato in nuovi flutti sulla terraferma.

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Braccia robuste che trattengono esistenze fragili. Corpi stesi, avvolti in vesti che sembrano sudari. Al centro, tagliente nel suo candore, una fanciulla che rievoca la pena manzoniana, «una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio». Sguardi spenti, i cui «occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante».

Risonanze, anche della Zattera della Medusa di Théodore Géricault. Qui il naufragio dell’umanità, là quello della fregata francese Méduse, avvenuto il 2 luglio 1816 davanti alle coste dell’attuale Mauritania. Qui il silenzio quasi sacro di una sofferenza orizzontale che tutto affida, là l’ammassarsi verticale di corpi che lottano ostinatamente per la salvezza.

Là il mito, qui la condizione reale di molte persone migranti, ma in fondo di tutti noi. In viaggio su zattere fragili: sicurezze che, alla prova della vita, si rivelano nulla più che legni tenuti insieme da corde pronte a spezzarsi.

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