La Pasqua, il battesimo e Dante. Immersi nell’Amore

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Dante, uomo della Pasqua. Fra battesimo e movimento.


Il 25 marzo in Italia si celebra il “Dante Dì”, giornata dedicata alla memoria del più grande poeta nazionale. In effetti, per soddisfare il desiderio di celebrare Dante si è colti da irrefrenabile fantasia. Colpa (o merito) dell’incertezza: non si è sicuri del giorno della sua nascita, la ricorrenza del suo battesimo (il Sabato Santo 27 marzo 1266) è messa in dubbio, il fatale dies natalis per malaria (nella notte fra il 13 e il 14 settembre 1321) non sembra, umanamente parlando, l’occasione più gioiosa.

Il viaggio più breve e più grande

Non resta allora che affidarsi a «l’eterna geometria e l’eterna logica della creazione», come la chiama Francesco De Sanctis (Storia della letteratura italiana, I, Apolidi, 1890, p. 184), che nella Commedia, numeri e calendario alla mano, collocherebbe il Poeta tra le inquietanti fronde della «selva oscura» proprio il 25 marzo (ma c’è chi sostiene l’8 aprile), per ritrovarlo, meno di una settimana dopo – la Settimana Santa –, a contemplare «l’amor che move il sole e l’altre stelle».

Quel che è certo, è che il viaggio di Dante dal «tristo fiato» dell’inferno alla «somma luce» del paradiso è cammino di rinascita, intimamente legato alla Pasqua. E perciò al battesimo. «Considera, quando sei battezzato, donde viene il Battesimo, se non dalla croce di Cristo», ricorda Ambrogio di Milano nel De sacramentis. È da questa effusione di acqua e sangue, battesimo ed Eucaristia, che è possibile nascere «dall’acqua e dallo Spirito» per entrare nel regno dei cieli (Gv 3,5).

Pasqua e battesimo

Come e quando sia avvenuto, qualcuno deve avere battezzato il piccolo Durante, detto Dante, fra le lastre di marmo del «bel San Giovanni», il Battistero di Firenze. Ma è un altro il “battesimo” che Dante ricorda da adulto. Un battesimo, si badi, del tutto simbolico, perché il sacramento è «conferito una volta per sempre, […] non può essere ripetuto» (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1272).

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Dante stesso ne parla nella Commedia, nel giardino dell’Eden posto sulla sommità del monte vertiginoso del purgatorio, dove le beatitudini eterne del paradiso, «che ridire né sa né può chi di là su discende», sono ormai a portata di mano. «Quando fui presso a la beata riva, Asperges me sì dolcemente udissi, che nol so rimembrar, non ch’io lo scriva. La bella donna ne le braccia aprissi; abbracciommi la testa e mi sommerse ove convenne ch’io l’acqua inghiottissi» (Pur., XXXI, vv. 97-102).

Assistiamo alla scena dalle rive dei fiumi Lete ed Eunoè, che scorrono nella «divina foresta spessa e viva» dell’Eden. Le acque del primo hanno il potere di attenuare il ricordo dei peccati commessi, quelle del secondo di rafforzare la memoria del bene compiuto. Un fondamento, spirituale e psicologico insieme, da cui ripartire a vivere. Tutt’altra cosa rispetto ai corsi fetenti e sanguinosi dell’inferno, dove nessuno pronuncia il proprio nome di battesimo, quasi fosse una bestemmia ricordarlo fra i paesaggi di una condanna eterna e inappellabile.

Pasqua personale

È tornando alla radice dell’umano e del divino – l’Eden – che Dante vive il culmine della sua personale esperienza della Pasqua: «tanta vergogna», «lagrime e sospiri» sferzano l’orgoglio cocciuto dell’uomo e del poeta, finché si scioglie, come la «neve tra le vive travi per lo dosso d’Italia», giù per il volto come dagli Appennini.

E Dante rinasce, non con il guizzo di un eroe del buddismo, ma come un povero cristiano. Lavàti il viso e gli occhi dalla caligine infernale all’inizio della salita dell’eterno monte, ritemprato da una Pasqua battesimale, restituito alla dignità di «quel color che l’inferno mi nascose», a Dante è donato uno sguardo nuovo.

Nella morte di Cristo, «cioè nel nostro battesimo, moriamo al peccato. E il peccato è la morte; dunque moriamo alla morte. Dante muore alla morte, cioè rinasce alla vita, perchè quella morte mistica è una natività», come scrive l’ateo devoto Giovanni Pascoli, egli stesso alla disperata ricerca di un dio in cui credere (Sotto il velame, Zanichelli, Bologna, 1912, p. 80).

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Dante, esiliato, è uomo della Pasqua, che si spoglia dell’immobilità all’inizio del suo viaggio più breve e più grande, «al piè d’un colle giunto». Dopo di allora è solo movimento: affronta sino al fondo l’abisso in cui si è precipitato, risale con fatica e quasi controvoglia la china del pentimento, prova il dolore del rimorso e, finalmente risorto con il Risorto, può di nuovo guardare a «lo cielo de la luce» (Vita nuova).

È questo ciò che fa del purgatorio del Poeta un luogo diverso da ogni altro: cantica del cammino, luogo di passaggio, via alla vera meta. Che i prossimi giorni ci trovino in viaggio su per l’erta. Stanchi e sporchi, ma in movimento. Perché sia autentica Pasqua.

Immagine di testata: Gabriele Dell’Otto, Paradiso Canto XXVI (particolare).

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