Milano fra binari, storia e devozione. Francesca Saverio Cabrini: una stazione e la modernità di una donna /3

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C’è una stazione, a Milano, che non è soltanto un esempio della monumentalità dell’architettura fascista. Racconta delle speranze e delle sofferenze di intere generazioni, della caparbietà del genio femminile e della straordinaria modernità di certe donne nella Chiesa.

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Nel trambusto che accompagna ogni viaggio è facile che qualcosa passi inosservato. Oggetti dimenticati a casa, certo, ma soprattutto i volti e i dettagli dei luoghi che si attraversano prima di arrivare a destinazione. Una stazione, per esempio. Lo sguardo cerca indicazioni, orari, talvolta un posto dove sedersi. L’olfatto si lascia sedurre dalle promesse di uno spuntino consumato rapidamente. L’udito, poi, si getta fra cellulari e altoparlanti. Facile che a passare inosservata sia proprio quella cosa che potrebbe dirci storia, presente e futuro di un luogo e di un intero Paese. Come una targa, che sembra pensata apposta per non farsi notare, anche se è sistemata all’imbocco di uno degli ingressi principali della stazione. Eppure, come recita quanto vi è inciso, «da questi binari tante volte si avventurò per le strade del mondo Francesca Cabrini (1850-1917), santa per la fede cattolica, apostola di solidarietà per tutte le genti in cammino».

«Non all’Oriente, ma all’Occidente. La vostra Cina sono gli Stati Uniti». Con queste o con parole simili nel marzo 1889 Leone XIII si rivolge a madre Francesca Saverio Cabrini, con il proposito di modificare la rotta dei passi che questa desiderava diretti in Cina, sulle orme del missionario gesuita dal quale aveva preso il nome. Due settimane dopo la Cabrini – giovane “maestrina” nata il 15 luglio 1850 a Sant’Angelo Lodigiano divenuta fondatrice di un Istituto religioso, quello delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù – affronta con alcune suore il primo viaggio oltre l’oceano, direzione New York. Spinta dalla vocazione che ne avrebbe fatto la santa degli emigrati, i suoi viaggi da quel momento si moltiplicano, conducendola fra le due Americhe e l’Europa per fondare, visitare o consolidare le numerose opere concepite in favore degli espatriati italiani, ai quali presto si aggiungono afroamericani, mulatti e cinesi.

«Poveri emigrati! Sfruttati tante volte da coloro che si atteggiano a loro protettori, e ingannati tanto più quanto meglio questi sanno colorire i loro privati interessi col manto della carità e dell’amor patrio! Li vedevo nel mio viaggio questi cari nostri connazionali, intenti a costruire ferrovie nelle più intricate gole di monti, lontani miglia e miglia dall’abitato, quindi per anni separati dalle loro famiglie; lontani dalla chiesa, privi delle sante gioie che nelle nostre campagne il povero contadino ha almeno la domenica» (Viaggi della madre Francesca Saverio Cabrini, Milano, 1935, pp. 387-389).

Emigrata con gli emigrati, come loro sperimenta il rifiuto, nella fredda accoglienza riservatale all’arrivo dall’arcivescovo di New York, mons. Michael Augustine Corrigan, che la invita a tornarsene in Italia. Caparbia nel portare comunque avanti la propria missione, Francesca Cabrini trova infine alloggio con le compagne, a notte inoltrata e sotto la pioggia, in un tetro albergo fra Little Italy e Chinatown. Una realtà non più dura di quella vissuta dagli italiani e che le suore imparano a conoscere nei mesi successivi: stranieri in Italia, negli Stati Uniti e spesso anche per la Chiesa. «In queste settimane, donne di bruna carnagione vestite da suore di carità, sono state vedute percorrere i quartieri di Little Italy, arrampicarsi per le scale strette ed oscure, discendere in sudici sotterranei ed arrischiarsi di entrare in certe caverne nelle quali neppure un poliziotto oserebbe mettere piede senza essere accompagnato. Queste donne sono tutte esili e delicate. Vestono un abito e portano un velo differente da quello delle solite devote. Poche di esse parlano l’inglese», scrive di loro un giornale dell’epoca.

Piccoli manipoli di suore percorrono instancabilmente i quartieri più malfamati, si affacciano negli scantinati sovraffollati, scendono nell’oscurità delle miniere in cui lavorano gli italiani. In pochi anni scuole, orfanotrofi, ospedali si moltiplicano fra Stati Uniti, Nicaragua, Argentina, Brasile, Spagna e Regno Unito. Insieme ad essi, cresce e si diffonde l’Istituto delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù. Alla morte della Cabrini, avvenuta a Chicago il 22 dicembre 1917, l’Istituto conta già 63 fondazioni ed oltre 1.300 suore missionarie. Un successo coltivato dalla stessa madre Cabrini, che, nonostante i numerosi viaggi, con le figlie della propria Congregazione – oltre che con la sorella Rosa, il fratello Giovanni Battista e alcune persone amiche – intrattiene una corrispondenza fatta di racconti avventurosi e stimoli spirituali. Una formazione fondata sull’esempio, che per prima offre e incoraggia ad imitare, innanzitutto nell’amore per Cristo.

Patrona degli emigrati, dal 2010 a Francesca Saverio Cabrini è dedicata la Stazione Centrale di Milano, che tante volte, al pari degli altri emigranti, la vide partire, valigie alla mano, verso le destinazioni più varie. Instancabile viaggiatrice – in treno, in nave, a dorso di mulo per superare le Andela Cabrini è un’icona del nostro tempo, lacerato da conflitti sociali e da un fenomeno migratorio che «impressiona per la quantità di persone coinvolte, per le problematiche sociali, economiche, politiche, culturali e religiose che solleva, per le sfide drammatiche che pone alle comunità nazionali e a quella internazionale», come scrive nel 2009 Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate (n. 62).

La stessa Stazione Centrale ne è un simbolo, al tempo stesso dell’accoglienza e di tutti i suoi limiti. «Nessun Paese da solo può ritenersi in grado di far fronte ai problemi migratori del nostro tempo. Tutti siamo testimoni del carico di sofferenza, di disagio e di aspirazioni che accompagna i flussi migratori. […] Resta tuttavia accertato che i lavoratori stranieri, nonostante le difficoltà connesse con la loro integrazione, recano un contributo significativo allo sviluppo economico del Paese ospite […]. Ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione» (ibidem).

Francesca Saverio Cabrini non lascia in eredità proclami politici, rivoluzioni teologiche o rivendicazioni sessiste in seno alla Chiesa. Di lei rimane la personalità di una donna capace di mettere la propria femminilità e il proprio carisma al servizio di Dio. Se Francesca Saverio Cabrini guida una rivoluzione, lo fa nel cuore degli emigrati e degli altri abbandonati, ai quali restituisce quell’umanità sottratta loro dalle miserie materiali, morali e spirituali di una vita creduta senza speranze. Una donna concreta, pronta a donarsi per il bene delle anime, forte e coraggiosa nel denunciare il male e difendere il diritto e la giustizia. Esempio di quello che Giovanni Paolo II chiama il «genio femminile», apparso più volte nel corso della storia del Popolo di Dio e per il quale la Chiesa intera deve rendere grazie (cfr. Lett. apost. Mulieris Dignitatem, 15 agosto 1988).

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