Il viaggio di Zelensky in Vaticano e quello di papa Francesco in Ungheria dimostrano che la fede è talvolta parte di un rompicapo. Un poliedro dalle molte facce, alcune delle quali sanno essere violente. E altre quasi invisibili.
Il cubo di Rubik, celebre rompicapo in foggia di poliedro colorato, è un’invenzione ungherese. E forse non è un caso che sia nato in una terra lungo il Danubio dove le correnti sembrano mescolarsi in infinite combinazioni, senza mai giungere all’artificiosa monocromia di facce chiaramente opposte e distinte. È accaduto con la storia, accade anche con la fede.
Facce di un poliedro
Le religioni hanno visto aumentare – nel bene e nel male – il proprio peso nei rapporti internazionali, in particolare dall’inizio della guerra in Ucraina. Lo testimoniano, in maniera quasi opposta, la tappa di Zelensky in Vaticano e il viaggio del Papa in Ungheria. Un bilancio dei lunghi mesi di guerra evidenzia, infatti, come siano molteplici le facce che si combinano e ricombinano in un poliedro internazionale, e che impegnano – e talvolta imprigionano – la dialettica religiosa.
La faccia invisibile della pace
Molto si è detto della «missione» di pace adombrata dal Papa durante la conferenza stampa sul volo di rientro dall’Ungheria. Ad oggi, un progetto ricusato da Kiev e da Mosca e ignorato da gran parte dei protagonisti internazionali, salvo il sostegno manifestato – non a caso – da Budapest (e quello sottotraccia dell’Italia).
Anche il dibattito sorto attorno all’incontro privato di Francesco con il metropolita di Budapest, Ilarion – per 13 anni presidente del Dipartimento delle relazioni esterne del Patriarcato di Mosca e uomo del dialogo con la Santa Sede, “silurato” nel 2022 per la sua opposizione all’invasione dell’Ucraina – rivela che la speciale attenzione di cui gode la dimensione religiosa in questo conflitto nella Vecchia Europa è soprattutto un’elaborazione mediatica.
Dal canto suo, l’attualità delle diverse Chiese cristiane dice di un ecumenismo lacerato, di rapporti sempre più tesi fra il Patriarcato di Mosca, ostaggio della retorica strumentale di Kirill e Putin, la Chiesa ortodossa ucraina, quella cattolica ucraina di differenti riti, il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, la Santa Sede e la persona stessa del Papa. Parti, almeno finora, tutte incapaci di catalizzare un credibile flusso di pace, alternativo a quello degli armamenti.
La faccia pericolosa della strumentalizzazione geopolitica
Un’accoglienza ben diversa è quella riservata, almeno sulla carta, in Ungheria ai progetti di pace di papa Francesco. Merito del poliedrico primo ministro Viktor Orbán, religione calvinista in un Paese a maggioranza cattolica (confessione alla quale aderiscono la moglie e quattro dei cinque figli, il restante è pentecostale). Le sue prese di posizione, giudicate di estremo conservatorismo, hanno più volte suscitato qualche dolore di capo e di pancia in Europa, soprattutto sui temi della bioetica e della teoria del gender. Ma anche smaccati silenzi in fatto di respingimento di migranti.
Tutt’altro che uno sprovveduto sovranista da caricatura Orbán, non a caso il più longevo fra i leader europei, in carica dal 2010 (e prima dal 1998 al 2002). Anche il suo cerchiobottismo rispetto alla guerra in Ucraina ha finora saputo trarre vantaggio dalle maglie larghe dell’irresolutezza dell’Unione Europea, dall’abbondanza dei fondi comunitari (incassando come un successo il fallimento economico dei precedenti governi social-liberali, applauditi dall’UE) e dalla forza identitaria delle religioni.
È questa una seconda faccia della dinamica religiosa, connessa alla geopolitica della fede e della guerra. Il conflitto in Ucraina ha riportato l’attenzione su una sovrapposizione oggi estranea – per lo più – al mondo cattolico europeo: il filetismo, quella coincidenza di identità tra fede, sentimento nazionale e potere politico, che troppo spesso nella storia ha già dimostrato di volgersi a tutto vantaggio di quest’ultimo. Ne è un esempio la Chiesa ortodossa lituana, attraversata da gravi dissidi interni dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, alimentati dalla società civile e dalla politica nazionale. Per non parlare della situazione delle Chiese ortodosse in Etiopia.
Ancora più esemplare è, in Ucraina, la transizione di comunità e fedeli da UOC a OCU, vale a dire dalla Chiesa ortodossa ucraina (Ukrainian Orthodox Church, soggetta al Patriarcato di Mosca) alla Chiesa ortodossa dell’Ucraina (Orthodox Church of Ukraine, nazionale, fortemente voluta anche dal presidente filo-atlantista Porošenko). Il processo, in corso dal 2018 e decisamente più delicato di uno scambio di consonanti, restituisce la percezione di un conflitto esteso anche allo spazio religioso.
Una lotta per «l’indipendenza spirituale», come rivendicato dal presidente ucraino Zelensky, rispetto a quello che sempre più è percepito come un nemico interno, la Chiesa legata a Mosca. Perché «l’Ucraina ha il diritto di difendersi dall’aggressione russa in campo spirituale così come si difende sul campo di battaglia», per dirla con le parole del metropolita di Kiev e dell’Ucraina, Epifanij. Proprio in questi giorni il Consiglio ucraino delle Chiese e delle Organizzazioni religiose (UCCRO) è tornato a denunciare l’uso distorto della religione da parte della Russia in questa guerra.
L’asse Putin-Kirill ha infatti allineato la Chiesa russa allo sforzo bellico, finendo con l’asservire la fede alla ragione di Stato. Sin troppo facile, infatti, piegare alle logiche di un presunto scontro fra civiltà la riflessione su temi importanti, dal più che condivisibile rigetto delle colonizzazioni ideologiche della finanza e del gender alla difesa della vita, tutta. È così che, nelle parole di Putin, l’invasione dell’Ucraina diventa contrapposizione alla corruzione dell’Occidente e «riguarda la distruzione della famiglia, dell’identità culturale e nazionale, la perversione e l’abuso dei bambini, compresa la pedofilia, tutti elementi dichiarati normali nella loro vita. Stanno costringendo i sacerdoti a benedire i matrimoni tra persone dello stesso sesso. […] Milioni di persone in Occidente si rendono conto che sono condotte verso il disastro spirituale».
Non a caso vi è chi, come Adriano Dell’Asta, parla esplicitamente di una «teologia politica» di Putin, un approccio al governo che non muove più soltanto da considerazioni geopolitiche, bensì anche metafisiche e religiose. Il paragone con la retorica dello Stato Islamico è già stato evocato. «Queste due ideologie non sono differenti, tranne per il fatto che nell’ideologia dell’Isis è stato usato l’islam per giustificare i propri obiettivi, perché l’Isis ha strumentalizzato l’islam come religione. Riguardo alla Russkiy mir (una sorta di “pace imperiale” russa, ndr), abbiamo la medesima strumentalizzazione del cristianesimo», spiega Sua Beatitudine Svjatoslav Ševčuk, arcivescovo maggiore di Kiev-Halyč e arcieparca metropolita di Kiev.
Isis che – almeno stando ai commenti diffusi dai media più vicini, come Al-Naba – ritiene però la guerra fra Russia e Ucraina una punizione di Allah per i conflitti che hanno contrapposto l’Occidente e una parte del mondo musulmano e un’occasione per indebolire il controllo della Russia in Siria e nel Caucaso.
Perché ad essere coinvolto nel conflitto non è soltanto l’ecumenismo, con il venire meno di antichi legami in campo cristiano, ma anche il dialogo interreligioso. Nelle prime fasi della guerra il mondo ebraico è stato a più riprese chiamato in causa, non da ultimo anche con le reciproche accuse di nazismo e antisemitismo rimbalzate fra Putin e Zelensky. Più recente, invece, è l’introduzione da parte del Presidente ucraino di una nuova «tradizione» nel Paese, la celebrazione comune dell’ifṭār islamico, la cena che interrompe il digiuno del Ramadan.
La faccia contraddittoria della tradizione
Altra faccia di questo delicato rompicapo è quella che più ha a che fare con la narrativa bellica e la propaganda e si nutre di storia, tradizione e religiosità. La retorica russa delle icone mariane a supporto dell’impegno militare ha in qualche misura riadattato alle guerre ibride del terzo millennio un tratto che appartiene alla storia del cristianesimo e delle sue guerre, dall’antica Costantinopoli a Lepanto. «Ricordatevi che se date la vita per il vostro Paese sarete con Dio nel suo Regno, che vi darà gloria e vita eterna», sottolineava tempo fa il patriarca di Mosca Kirill dal Monastero Zachatievsky.
D’altro canto, sul fronte opposto mons. Stanislav Syrokoradjuk, vescovo della Chiesa cattolica di rito latino di Odessa-Sinferopoli, ha salutato il flusso di armi dall’Occidente come «una benedizione di Dio, così come ogni mezzo necessario a salvare vittime innocenti». Più di recente, il portavoce dell’intelligence militare ucraina, Andriy Yusov, ha definito l’esplosione di un deposito russo di petrolio a Sebastopoli, in Crimea, una «punizione di Dio» per i civili ucraini uccisi dai bombardamenti russi su Uman’. Differente il caso di Ševčuk, che nel riproporre l’immagine della Theotókos, la Madre di Dio, attinge a piene mani dalla spiritualità applicata alla guerra che appartiene alla tradizione della cristianità d’Oriente. «Sotto il velo della Beata Vergine Maria l’Ucraina avanza verso la vittoria».
Il poliedro spezzato
Non c’è dubbio che le atrocità cui stiamo assistendo nella guerra in Ucraina e in ogni guerra, soprattutto dimenticata, rendano ancora più pressanti gli interrogativi sul senso della sofferenza. Molti, troppi, gli individui e i luoghi di culto violati perché qualcuno possa parlare di qualcosa di santo in ciò che sta accadendo.
Nella geometria del mondo, così come in quella della Chiesa incamminata sulla via dell’ecumenismo, si ripropone la figura del poliedro, «che riflette la confluenza di tutte le parzialità, che in esso mantengono la loro originalità» (Evangelii gaudium, n. 236). Un modello sempre più distante, di fronte ad una violenza tale da avere non soltanto generato un rompicapo, ma da averlo infranto. Colori da sempre inevitabilmente mescolati, e che tali resteranno, ma che con sempre maggiore difficoltà riusciranno d’ora in poi a convivere dal medesimo lato.
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